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Monopolio addio, Uruguay ai vinti


Il trionfo del Frente Amplio mette fine al dominio condiviso dei due partiti tradizionali (blanco e colorado) che governano il paese dalla notte dei tempi. Messa da parte la sfiducia, i malinconici uruguaiani si scoprono a fare i salti di gioia
3 novembre 2004
Eduardo Galeano
Fonte: Il Manifesto del 02/11/04

Un paio di giorni prima che nel Nordamerica si eleggesse il presidente del pianeta, in Sudamerica ci sono state le elezioni e c'è stato il referendum in un paese ignorato, un paese quasi segreto, chiamato Uruguay. In quelle elezioni ha vinto la sinistra, per la prima volta nella storia nazionale, e in quel referendum, per la prima volta nella storia mondiale, il voto popolare si è opposto alla privatizzazione dell'acqua e ha confermato che l'acqua è un diritto di tutti. Il movimento di cui è leader Tabaré Vázquez ha messo fine al monopolio condiviso dai due partiti tradizionali, che governavano l'Uruguay dalla notte dei tempi. «Io credevo che avessimo vinto noi bianchi, invece abbiamo vinto noi colorados» si sentiva dire, così o al contrario, ad ogni elezione. Per opportunismo, sí, ma anche perché dopo tanta coabitazione al governo, bianchi e colorados erano diventati un unico partito travestito da due partiti. Stufa di essere presa in giro, la gente ha fatto uso del buon senso, che si usa di rado. La gente si è chiesta: «Perché promettono cambiamenti e ci invitano ancora una volta a scegliere fra una cosa e la stessa cosa? Perché non hanno realizzato quei cambiamenti se sono al governo da una vita? Il vicepresidente del paese è giunto alla conclusione che questo popolo che fa domande non è intelligente».

Non era mai stato così evidente l'abisso che separava il paese reale dai discorsi acchiappavoti. Nel paese reale, paese ferito, dove si moltiplicano solo gli emigranti e i mendicanti, la maggioranza ha optato per tapparsi le orecchie di fronte ai vuoti discorsi di questi marziani che competono per il governo di Zeus con parole altisonanti provenienti dalla luna.

Nessuno dei padroni del potere ha avuto l'onestà di confessare:«Siamo fottuti, voi lo siete».

Poco più di trent'anni fa in queste pianure del Sud sorse il Frente Amplio. «Fratello non te ne andare», esortava il nuovo movimento: «È nata una speranza».

Però la crisi fu più veloce di quella speranza, e accelerò l'emorragia di popolazione che ha svuotato di giovani il paese. Alla fine del sogno della Svizzera d'America, iniziava l'incubo della povertà e della violenza. La spirale della violenza culminò nella dittatura militare, che trasformò l'Uruguay in una sconfinata camera di tortura.

Poi, quando tornò la democrazia, i politici dominanti sterminarono quel poco che rimaneva del sistema produttivo e trasformarono l'Uruguay in una grande banca. La banca fallì, come succede di solito con le banche quando le assaltano i banchieri, e rimanemmo pieni di debiti e privi di gente. Adesso perfino i dentisti si lamentano: «La gente scarseggia, scarseggiano i denti».

In tutti questi anni, di disastro in disastro, abbiamo perso una moltitudine. I giovani sono quelli che maggiormente se ne sono andati a cercare lavoro in altre terre, sotto altri cieli. E come se non bastasse, non contento di cacciare via i giovani, questo sistema sclerotico gli proibisce di votare. L'Uruguay è uno dei pochi paesi dove non possono votare coloro che vivono all'estero, né nei consolati, né per posta. Sembra inspiegabile, ma una spiegazione c'è. Chi voterebbero quei voti? I padroni del paese temono il peggio. Hanno ragione.

Nell'atto finale della sua campagna elettorale, il candidato alla vicepresidenza per il partito colorado annunciò che se la sinistra avesse vinto le elezioni, tutti gli uruguaiani sarebbero stati obbligati a vestire uguale, come i cinesi nella Cina di Mao.

Egli è stato uno dei tanti involontari agenti propagandistici della sinistra trionfante. Neppure il militante più sfegatato ha fatto tanto per la vittoria quanto i tribuni della patria che hanno allertato la popolazione contro l'imminente pericolo che la democrazia cadesse in mano a tiranni nemici della libertà e delinquenti nemici della democrazia, terroristi, sequestratori e assassini. Sono state denunce di grande efficacia: quanto più hanno attaccato i diavoli, tanto più l'inferno ha preso voti.

In buona parte, proprio grazie a quegli araldi dell'apocalisse e alle loro parole tuonanti, la sinistra è riuscita ad ottenere, alla prima tornata, la maggioranza assoluta. La gente ha votato contro la paura.

Anche il referendum sull'acqua è stato una vittoria contro la paura. L'opinione pubblica uruguaiana è stata bombardata da estorsioni, minacce e bugie. Votando contro la privatizzazione dell'acqua, avremmo sofferto la solitudine e il castigo e saremmo stati condannati ad un futuro di pozzi neri e di putridi acquitrini.

Come nelle elezioni, anche nel referendum ha vinto il buon senso. La gente ha votato confermando che l'acqua, risorsa naturale scarsa e peritura, dev'essere un diritto di tutti e non un privilegio di chi se lo può pagare. E inoltre la gente ha confermato di non essere fessa e di sapere che più prima che poi, in un mondo assetato, le riserve d'acqua saranno ambite anche più delle riserve di petrolio. Noi paesi poveri, ma ricchi d'acqua, dobbiamo imparare a difenderci. Più di cinque secoli sono trascorsi da Cristoforo Colombo. Fino a quando continueremo a scambiare oro con fondi di bottiglia?

Non varrebbe forse la pena che altri paesi chiamassero il popolo a pronunciarsi sul tema dell'acqua? In una democrazia, quando è vera, chi deve decidere? La Banca mondiale o i cittadini di ciascun paese? I diritti democratici esistono davvero, o sono le fragole che guarniscono una torta avvelenata?

Anche alcuni anni fa, nel 1992, l'Uruguay era stato l'unico paese al mondo a indire un referendum sulla privatizzazione delle imprese pubbliche. Il 72% votò contro. Non sarebbe democratico indire ovunque referendum sulle privatizzazioni, tenendo conto che compromettono il destino di varie generazioni?

Noi latinoamericani siamo stati educati, da secoli, all'impotenza. Una pedagogia che viene dai tempi delle colonie, impartita da militari violenti, dottori pusillanimi e frati fatalisti, ci ha inculcato la certezza che la realtà è inalterabile e che non possiamo far altro che ingoiare in silenzio i nostri rospi quotidiani.

L'Uruguay dei tempi andati era stato un'eccezione. Contro l'eredità del non c'è modo e del non si può, e contro l'abitudine di confondere il realismo con l'obbedienza e il tradimento, questo paese ha saputo ottenere l'istruzione laica e gratuita prima dell'Inghilterra, il voto alle donne prima della Francia, la giornata lavorativa di otto ore prima degli Stati uniti e il divorzio prima della Spagna (sessant'anni prima della Spagna, per essere precisi).

Adesso stiamo iniziando a recuperare quella energia creatrice, che sembrava perduta nella lunga notte della nostalgia. E non sarebbe una cattiva idea tenere ben presente che quell'Uruguay dei tempi fecondi fu figlio dell'audacia, non della paura.

Non sarà certo facile. L'implacabile realtà non impiegherà molto a ricordarci l'inevitabile distanza che separa ciò che si vuole da ciò che si può. La sinistra arriva al governo in un paese a pezzi, che in tempi molto lontani fu all'avanguardia del progresso universale e che oggi è il fanalino di coda di quelli più arretrati, un paese distrutto, indebitato fino ai capelli e sottoposto alla dittatura finanziaria internazionale, che non vota ma vieta.

Abbiamo un margine ridotto di manovra e di movimento, ma ciò che in solitudine risulta difficile, e perfino impossibile, può essere immaginato, e perfino realizzato, se ci mettiamo insieme ai paesi vicini, così come siamo stati capaci di metterci insieme ai vicini di casa.

Nella prima manifestazione della storia del Frente Amplio, che lanciò una fiumana di gente per le strade, qualcuno dalla folla aveva gridato, fra l'attonito e l'euforico:«C'è il rischio di vincere!» Più di trent'anni dopo è successo.

Questo paese è irriconoscibile. Dal fu all'è, dall'è al sarà: la gente, che era così sfiduciata da non credere nemmeno più nel nichilismo, è tornata a credere, e ha voglia di credere. Noi uruguaiani, malinconici, poco reattivi, che sulle prime sembriamo argentini col valium, stiamo facendo i salti di gioia.

Che enorme responsabilità per i trionfatori, per coloro che sono stati votati e per noi che li abbiamo votati. Bisognerà proteggere, come la foglia protegge il frutto, questa rinascita della fede, questa rifondazione dell'allegria. E ricordare ogni giorno che aveva ragione Carlos Quijano, quando diceva che i peccati contro la speranza sono gli unici che non hanno perdono né redenzione.

Note: Copyright Ips(trad. di Marcella Trambaioli)

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