Latina

Da El Salvador

Monsignor Romero: la Pasqua del Salvador

Diario di viaggio nel Salvador, tra le elezioni presidenziali ed le giornate in memoria di mons. Oscar A. Romero
11 aprile 2004
Flavio Tannozzini

San Salvador. Nel parco intitolato a Simon Bolivar c’e’ un monumento alla memoria delle vittime della violenta repressione che ha insanguinato El Salvador dagli anni ’70 ai primi anni ’90. I nomi di oltre 20.000 persone, piccola parte delle vittime di omicidi e sparizioni, riempiono un’intera parete di marmo nero, una grande lapide di trenta metri di larghezza, e tre di altezza, nella quale l’occhio si perde prima ancora che la mente possa farsi un’idea delle dimensioni della tragedia che ha colpito questo paese. Una fredda cifra in numeri viene tradotta in nome, in ventimila nomi, memoria di altrettante persone in carne ed ossa, che sono solo una quinta parte delle vittime di una follia sterminatrice.
Un monumento alla memoria non e’ solamente funzionale al ricordo della persone, se non una testimonianza viva che accompagna il popolo salvadoregno, cosciente figlio del proprio passato e che non può prescindere dal vivere il presente in relazione con la storia degli ultimi trenta anni.
Un monumento alla memoria e’ un monito a non dimenticare, un grido scritto tra questi ventimila nomi a che non si ripeta l’orrore del passato, il grido dei martiri del Salvador, morti mentre combattevano per la libertà del popolo e che chiamano ancora oggi a seguire nella lotta, nonostante tutto.
Tra questi nomi si trova quello di Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo di San Salvador dal 1977 al 1980, anno del suo assassinio. Un nome tra tanti, perché la vita di un Arcivescovo non vale di più di quella di un contadino o di un operaio. Ma Monsignor Romero è diventato un simbolo di lotta per la pace e per la libertà dell’intero paese. Romero è infatti stato un pastore forte e fedele per il proprio popolo, del quale ha sostenuto le spinte progressiste, i moti di protesta e di organizzazione verso il cambiamento sociale, incarnato l’immane sofferenza inflitta dalla repressione militare, al punto da sacrificare la propria vita sulla croce, martire per la causa dei poveri.
Dal giorno del suo assassinio, il 24 marzo del 1980, si celebra tutti gli anni questo anniversario attraverso una manifestazione di popolo imponente, che partecipa ad una grande festa di piazza e ad una cerimonia religiosa. Popolo in festa, per le strade, che non ricorda il lutto di una morte, ma gioisce per una rinnovata resurrezione. Una prima processione diretta alla cattedrale, la mattina del 24, fa tappa intermedia al monumento alla memoria delle vittime della guerra civile. Questa prima processione, che è solo un preludio alla grande manifestazione serale, parte dalla piccola chiesa della Divina Provvidenza, all’interno di un ospedale per malati di cancro, meglio conosciuta con il nome di Hospitalito. E’ il luogo dove Romero è stato ucciso ventiquattro anni fa, mentre celebrava. La messa che si tiene all’Hospitalito, prima della partenza della processione, è qualcosa di altamente coinvolgente per la partecipazione delle persone che vi prendono parte e la organizzano. Sono i sacerdoti, le suore, i catechisti delle Comunità di Base che sono stati vicini a Romero, i suoi amici stretti. Si respira un’aria famigliare, sono presenti solo alcune centinaia di persone, che strabordano dalle porte della piccola chiesa. E’ una messa impostata sullo stile di quella Chiesa Popolare basata sull’impegno pastorale mirato allo sviluppo sociale. Quella Chiesa voluta da Romero durante il suo arcivescovato, attraverso l’attenzione all’organizzazione dei gruppi popolari delle Comunità di Base attorno al messaggio cristiano, uno stile di Chiesa Popolare che in America Latina traduce il pensiero della Teologia della Liberazione. In questa messa la liturgia, come la Parola, è di tutti, e sempre rivolta ai problemi del popolo. All’Hospitalito è presente anche un Vescovo (José Adolfo Mojica vescovo della diocesi di Sonsonate), ma a fare la cerimonia sono i vari catechisti, suore, sacerdoti e chiunque si senta di salire all’altare per spezzare la Parola. La partecipazione popolare si esprime poi attraverso il coinvolgimento nell’allegria delle canzoni che cantano un Cristo lavoratore, operaio, ingegnere, contadino, architetto, del suo messaggio rivoluzionario e del suo sacrificio vitale dal quale il popolo trae la forza di risollevarsi e organizzarsi per migliorare le proprie condizioni di vita.
E’ un momento spirituale, sociale, politico al tempo stesso. Per noi occidentali può sembrare strano, ma per i fedeli della Teologia della Liberazione non lo è. Il messaggio politico è ben chiaro e legato all’esperienza delle masse, fin dall’inizio alla celebrazione si inframezzano cori e slogan che sono gli stessi della sinistra popolare, che chiamano i vescovi al fianco dei più poveri, che invocano il nome di Romero accanto a quello degli eroi rivoluzionari: Sandino, Zapata, Che Guevara. E’ una commistione che qui non scandalizza nessuno, perché il messaggio di Cristo è un messaggio rivoluzionario di liberazione.
Per meglio comprendere questa situazione e il valore socio-politico dell’Anniversario di Mons. Romero, bisogna però risalire a quella che è stata la figura dell’Arcivescovo di San Salvador in quel frangente storico. Negli anni ’70 in Salvador fioriscono numerosi movimenti popolari che spingono al cambiamento sociale verso uno Stato di Diritto più rispettoso delle classi meno abbienti. I moti di protesta occupano le piazze rischiando di accendere micce rivoluzionarie preoccupanti per l’estrema destra e i militari al potere, che non esitano ad iniziare una repressione armata violentissima. Al momento di eleggere il nuovo Arcivescovo di San Salvador, le oligarchie imprenditoriali e gli stessi militari fanno pressione sulla nomina di Oscar Romero, visto di buon occhio dai conservatori per la sua moderatezza e la non ingerenza negli affari politici dello Stato.
Monsignor Romero assume l’Arcivescovato di San Salvador all’inizio del marzo ’77, pochi giorni dopo viene assassinato il sacerdote Rutilio Grande, suo strettissimo amico, il cui impegno politico e sociale e la visione di Chiesa al fianco dei poveri aveva infastidito molto il potere dell’estrema destra al governo. E’ una svolta nella vita di Romero e del Salvador. Tra il 1977 e il 1980 vengono uccisi sei sacerdoti e oltre venti catechisti fautori della Teologia della Liberazione. Dal moderato che era, Romero diventa una forza liberatrice che si esprime attraverso le omelie della messa domenicale nella cattedrale, ormai appuntamento fisso per il popolo e per la radio, che diffonde la voce del Vescovo in tutto il paese. In poco tempo Romero diventa una vera guida spirituale e un riferimento per il popolo, le sue parole hanno un effetto dirompente su chi le ascolta; molti testimoni ricordano l’Arcivescovo inginocchiato per ore davanti all’altare, prima di iniziare la messa, concentrarsi sull’omelia, assorbire lo Spirito da donare ai propri fedeli per proseguire forti nella loro lotta, sopportare le repressioni e le minacce, continaure a gridare. La Chiesa di Romero è una Chiesa apertamente schierata con l’opposizione politica, progressista o rivoluzionaria, che rappresenta i poveri, “altrimenti – dichiara l’Arcivescovo – non si può definire una vera Chiesa di Gesù Cristo... Il vero cristiano sceglie un’opzione preferenziale per i poveri, quello che più conta in qualsiasi contingenza politica”.
Romero si scaglia duramente contro i poteri forti, la dittatura dei militari, la corruzione al governo, la ricchezza e la proprietà privata che viene idolatrata come un dio mentre la maggior parte della popolazione muore di fame e non ha la terra per coltivare. Incita il popolo a seguire Gesù, il suo messaggio rivoluzionario e liberatore, costruisce attraverso una rete di catechisti e sacerdoti le Comunità di Base, gruppi e movimenti popolari in cui la gente si organizza non solo per reclamare i propri diritti ma per costruire alternative alla società che la opprime. Si contano, di tutta risposta, quattrocento omicidi al mese, a cui sommare le vittime di sparizioni e di torture, in un livello di violenza repressiva inaudita. Romero è ben consapevole di essere nel mirino, ha cominciato a ricevere minacce di morte sempre più pressanti, ma non si ferma. E’ sorretto dalla fede incrollabile in un ideale: quello di seguire radicalmente Gesù. In un’intervista del marzo 1980 dichiara: “Se muoio, resusciterò nel mio Popolo, che il mio sangue sia semente di libertà”. In alcune sue riflessioni, oggi rese pubbliche, si può leggere, in un dialogo interiore, la difficoltà ad accettare una morte sulla croce, il sacrificio estremo e consapevole. Consapevole di non poter cambiare il volere di Dio e di stare scrivendo la storia. Nella sua ultima omelia nella cattedrale, il 23 marzo 1980, il suo appello ai militari e’ fortissimo: “Fratelli, voi appartenete come noi al popolo, voi pero’ uccidete i vostri fratelli contadini. Di fronte all’ordine di uccidere dato da un uomo, e’ la Legge di Dio che deve prevalere, e quella legge dice: TU NON UCCIDERAI. Un soldato non e’ costretto ad obbedire ad un ordine che va contro la Legge di Dio. Una legge immorale non deve essere rispettata. In nome di Dio, in nome del Popolo che soffre, le cui sofferenze crescenti salgono al cielo, io vi supplico, io vi chiedo, io vi ordino: fermate la repressione!”. Nella registrazione audio, mandata a ripetizione durante la manifestazione, si ascolta come le parole del sacerdote siano interrotte da scrosci di applausi che esplodono. La sopportazione della gente è arrivata al culmine, l’appello di Romero è l’ultimo tentativo di scongiurare una guerra civile alle porte. Un Arcivescovo che impartisce ordini ai militari al potere è considerata la goccia che fa traboccare il vaso. Il giorno dopo, Romero è all’Hospitalito, nella residenza dove si nasconde da alcuni mesi a causa delle minacce di morte. Come ogni giorno predica la messa nella piccola Chiesa dell’ospedale. Dopo aver pronunciato: “Tutto lo sforzo per migliorare una società, soprattutto quando è sprofondata nell’ingiustizia e nel peccato, è uno sforzo che Dio benedice, vuole, esige”, alza al cielo il pane e il vino per rendere grazie nel momento della consacrazione. Viene raggiunto al centro del petto da un proiettile al cianuro esploso da un cecchino dall’esterno della Chiesa. Proprio nel momento della consacrazione il corpo e il sangue di Romero si mischiano a quello di Cristo. L’immagine del sacerdote con il volto e le vesti ricoperte di sangue a causa della fulminante emorragia interna, rimangono impresse nella memoria dei suoi fedeli. Ancor più lo rimangono le sue parole, le sue prediche, soprattutto quelle frasi pronunciate pochi giorni prima: “Che il mio sangue sia semente di libertà. Resusciterò nel mio Popolo”. Pochi giorni dopo, ai funerali, mentre la cassa funebre è trasportata all’esterno della cattedrale, in una piazza gremita di fedeli, alcuni tiratori appostati sul palazzo del governo sparano in piena folla e sul feretro dell’Arcivescovo. Muoiono alcune decine di persone, nel panico la folla si ammassa per rinchiudersi all’interno della cattedrale, nella cui cripta si trova tutt’oggi la tomba di Romero.
La follia e l’odio sono arrivati ad un punto estremo, quello di sparare sulla folla e sulla cassa di un Arcivescovo che non può più “dare fastidio”, durante una cerimonia funebre. E’ indice di quanto Romero abbia avuto un ruolo importantissimo nell’organizzare il popolo ad opporsi al regime dittatoriale. Mentre la Chiesa istituzionale sta a guardare, privo ormai del suo pastore, il popolo prende una strada differente da quella auspicata dalla Teologia della Liberazione avversata dalla curia di Roma; nessuno è più in grado di controllare la rivolta sociale in corso e le sue differenti forme. Non poteva andare diversamente: l’ultima via è quella armata. Nel 1981 scoppia una guerra civile che durerà fino al 1992 sottoforma di guerriglia. Molti sacerdoti, per necessità, prenderanno la via della montagna, dove si nascondono i guerriglieri del Fronte Farabundo Marti’ per la Liberazione Nazionale (FMLN). Il Fronte riunisce le opposizioni al partito ufficiale dell’estrema destra, l’Alleanza Repubblicana Nazionale (ARENA), il cui fondatore, Maggiore Roberto D’Aubisson, è l’acclarato mandante dell’assassinio di Romero.
La storia spiega il perché la figura di Romero abbia un valore altamente sociale e politico, oltre che spirituale. Il popolo che scende in piazza a vivificare il ricordo del suo Pastore, e’ lo stesso che oggi, sotto le bandiere rosse del FMLN e di Che Guevara, manifesta nelle strade per reclamare i propri diritti sociali ed opporsi alla politica dei trattati di libero commercio, che stanno mietendo vittime tra i più poveri del Centro America. Ancora di più il peso politico di questa manifestazione si avverte quest’anno. Il 21 marzo infatti ci sono state le elezioni presidenziali e per la quarta volta consecutiva e’ stato eletto un presidente di ARENA contro un candidato del Fronte. Il partito di sinistra, che ha riscosso molti consensi, ha pagato una campagna elettorale distruttiva operata dal partito ufficiale e probabilmente brogli elettorali denunciati da diversi osservatori internazionali. Il Fronte aveva già organizzato i festeggiamenti per Romero, da accoppiare con una aspettata vittoria politica che non è arrivata, a sorpresa di tutti. Sono stati tre giorni tristi per il popolo delle classi medio-basse del Salvador, fino al “giorno di Romero”, in cui le piazze si sono riempite di nuovo per rompere il silenzio. Un grande striscione recita: “Scusaci Romero, abbiamo eletto di nuovo i tuoi assassini”; comincia la festa con un concerto nel parco Salvador del Mundo, tra la statua di Cristo e quella di Romero, tra le bandiere rosse. La manifestazione serale coinvolge tutto il popolo, per lo meno quello della sinistra, che si riversa per le strade in una marcia festosa ma allo stesso tempo carica di un significato politico che esprime le decisione di continuare a seguire gli ideali e ad opporsi ad un sistema economico e politico che fa gli interessi della classe imprenditoriale e dei ricchi del paese. La folla si raduna nella piazza centrale, davanti alla cattedrale, al cui esterno, sotto il ritratto di Romero che copre tutta la facciata dell’edificio, e’ stato montato un palco. Da qui il Vescovo ausiliare di San Salvador mons Gregorio Rosa Chávez celebrera’ la messa più grande dell’anno alla presenza di decine di migliaia di persone. E’ una messa in cui prendono parte canti e danze popolari incentrate sulla storia di Romero, le preghiere dei fedeli sono condotte dai catechisti, che affrontano argomenti di politica attuale, soprattutto quello del Trattato di Libero Commercio, la cui ratificazione da parte dello Stato sarebbe l’ennesima condanna ai danni delle classi socialmente piu’ deboli. Lo stesso Vescovo, sulla scia del suo predecessore, durante l’omelia fa un deciso appello al neo eletto presidente di ARENA a rispettare le promesse fatte durante la campagna elettorale e mettere al primo posto i poveri nel piano di sviluppo previsto dal governo. Come un simbolo di quella che e’ stata la Chiesa popolare voluta da Romero, sono i sacerdoti che scendono nella piazza e si mischiano tra la gente per portare la Comunione a tutti. “Anche se in tempo di quaresima non si canta il Gloria - spiegano i !
catechisti dal palco - oggi lo cantiamo più forte che mai, perché oggi è una grande festa, la festa della resurrezione di Monsignor Romero!”. Romero, come promesso, è resucitato anche quest’anno nel suo popolo, oggi è vivo in esso, presente nel suo Spirito, accompagnandolo nel suo cammino di liberazione che tanta strada ha fatto dagli orrori degli anni ’80 ma che molta ne deve ancora fare per vincere le nuove forze economiche che lo opprimono. Alla fine della messa si dichiara l’anno giubilare di “San Romero d’America”. Nella piazza, al contrario di 24 anni fa, quando gli spari dei soldati si abbattevano sui civili e sul feretro del loro Pastore, risuonano gli scoppi dei fuochi d’artificio, fuochi di festa per celebrare la resurrezione di Romero. Oggi è la Pasqua del Salvador.

Flavio Tannozzini.

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