Latina

L'angioletto

Negli occhi verdi del contadino brillò una fiamma improvvisa. Nel suo cervello eccitato dall'alcol era appena germogliata un'idea audace e folle racconti mai visti. Quasi sconosciuto in Italia, il cileno Baldomero Lillo, uno dei grandi maestri del realismo del primo Novecento latinoamericano, denunciò nei suoi racconti le condizioni di sfruttamento delle classi subalterne Anche la morte di un bambino può diventare lo spunto di una tragica «fiesta» per i poveri legnaioli protagonisti di questa intensa novella
19 agosto 2006
Baldomero Lillo
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Là dove iniziano i primi contrafforti della cordigliera di Nahuelbuta, a pochi chilometri dal mare, si estende una vasta regione accidentata e coperta di alte colline, di profondi crepacci e di boschi impenetrabili. In un isolamento quasi assoluto, lontano dai villaggi che sorgono nelle strette valli vicine all'oceano, vive un centinaio di montanari il cui unico lavoro consiste nel taglio degli alberi che, ridotti in pezzi, vengono trasportati su piccoli carri fino agli stabilimenti carboniferi della costa. Dovunque, tanto alle falde delle colline che in fondo ai crepacci, durante il giorno si sente l'incessante rumore delle asce che feriscono i tronchi secolari del rovere, del lingue e dell'alloro.
Due volte al mese sale dalla pianura uno dei capoccia della hacienda per misurare e stimare il lavoro dei legnaioli, come vengono chiamati questi operai dei boschi. Dopo un minuzioso esame, consegna a ciascuno un buono con l'annotazione del compenso che gli spetta per il legno lavorato. I buoni servono da moneta per acquistare nello spaccio dell'hacienda il necessario per la la sopravvivenza del lavoratore e della sua famiglia.
In quei giorni, nei miserabili tuguri disseminati nel folto, in spiazzi aperti con l'ascia, donne e bambini dai volti macilenti e dai corpi seminudi spiano con occhi timidi attraverso le radure della boscaglia la sagoma del capataz, signore e padrone, per loro onnipotente, di quanto esiste nella foresta.
Oltre che nello spaccio dell'hacienda, i proprietari dei buoni possono scambiarli con merci varie nel negozio del Chispa, situato all'incrocio di due sentieri nel cuore dell'altopiano. Il proprietario, un uomo robusto e vigoroso, con il volto bruno e gli occhi dallo sguardo astuto, era stato un famoso ladro di bestiame che per molto tempo aveva terrorizzato gli abitanti di Nahuelbuta, dove il temibile personaggio aveva il suo covo.
Un giorno una notizia sensazionale si era diffusa nelle campagne devastate dalle ruberie del bandito. A quanto pareva, costui aveva abbandonato le sue attività criminali per guadagnarsi la vita onestamente. I motivi che lo avevano indotto a prendere questa decisione, però, erano rimasti sconosciuti, perché al riguardo l'interessato manteneva il più assoluto riserbo. Solo pochi ne conoscevano la causa: si trattava di un accordo, o meglio un trattato di pace e amicizia, stipulato tra il ladro di bestiame e il padrone del latifondo più importante della regione. Grazie a quel patto, il primo garantiva al secondo, mediante la sua autorità e influenza presso quelli del mestiere, l'integrità e la sicurezza del bestiame della hacienda. In cambio di questo servizio avrebbe ottenuto un pezzo di terra per costruirsi una casa, e l'oblio e l'impunità per i conti che aveva in sospeso con la legge.
Dato che per rispettare efficacemente l'accordo era indispensabile non perdere i contatti con i compagni in attività, la casa del Chispa era diventata il luogo di riunione e il rifugio dei ladri di bestiame che infestavano quelle terre. La giustizia non lo ignorava, ma il protettore del bandito era potentissimo e la sua influenza così forte che nessuno era tanto audace da mettere le mani su quest'ultimo. Se qualche funzionario di polizia, esasperato dalle denunce e dalle proteste delle vittime, si decideva a sorvegliare il covo, riceveva immediatamente dal suo superiore gerarchico l'ordine perentorio e minaccioso di lasciare in pace il ladro di bestiame.
I viaggiatori che attraversavano l'altopiano, cavallari, carrettieri e mandriani, usavano fermarsi a casa del Chispa sia per mangiare e bere, sia per riposare dalla fatica del cammino. Ma i clienti più assidui erano i legnaioli, che in buona parte lasciavano lì l'intero frutto del loro lavoro. Per attrarre la clientela El Chispa organizzava riffe di commestibili e liquori con il debito accompagnamento di canti e danze. Ma la fiesta che aveva più successo era la celebrazione della veglia funebre di un «angioletto». Quando nella foresta moriva un bambino piccolo, i genitori lo portavano a casa del Chispa, che dietro pagamento di alcune monete diventava padrone del cadavere fino al momento della sepoltura, che aveva luogo tre o quattro giorni dopo la morte. Durante questo intervallo si cantava, si ballava e si beveva intorno alla creatura, e la festa non si interrompeva finché lo stato di decomposizione dei resti rendeva indispensabile procedere all' immediata sepoltura.
La sera di un giorno di dicembre caldo e luminoso, la casa del Chispa traboccava di gente: si celebrava con gran pompa la veglia funebre di un «angioletto». Nella stanza attigua al negozio, su un tavolo coperto da una profusione di fiori di carta e illuminato da quattro candele di sego fissate al collo di altrettante bottiglie vuote, era disteso il cadavere di un bambino di due anni. Aveva le mani incrociate sul petto, sopra il bianco sudario adorno di perline di vetro, nastri e figure fatte con fogli di sottile lamina metallica chiamata «smalto». Anche se la tela appariva giallastra per l'uso prolungato, l'indumento funebre formava l'orgoglio del Chispa e l'ammirazione di tutti per la varietà e la ricchezza degli ornamenti.
Sin dalle prime ore del giorno le corde dell'arpa e della chitarra non avevano smesso di risuonare sotto la pressione delle dita nodose di anziane cantanti dai volti asciutti e incartapecoriti, che con le loro voci acute intonavano la canzone dell' angioletto che se ne va glorioso in cielo. Il fumo dei sigari e la polvere alzata dai ballerini, che pestavano allegramente i piedi sul pavimento di terra battuta, oscuravano l'atmosfera della stanza troppo angusta per contenere i numerosi partecipanti alla veglia. Enormi bicchieri di liquore giravano di mano in mano, e più gli effetti dell'ubriachezza andavano accentuandosi, più l'animazione e la confusione aumentavano.
Quando scoppiava una lite e il rumore e la gazzarra salivano di tono, accorreva subito El Chispa, e il più delle volte bastava la sua presenza a placare gli animi esaltati. Di carattere autoritario e violento, aveva sempre represso con mano di ferro ogni accenno di disordine nella sua abitazione. Inoltre il prestigio che gli conferivano le sue prodezze era tale che nessuno si azzardava a protestare per la rudezza o le maniera spicce cui faceva ricorso per risolvere le divergenze tra i clienti. Tra i partecipanti alla festa richiamava l'attenzione, per la rumorosa allegria che manifestava, un giovane legnaiolo di media statura, occhi verdi e capelli castani che contrastavano con il colorito scuro del viso bruciato dal sole.
Lo chiamavano El Chucao per la perfezione con cui imitava questo chiassoso uccelletto della foresta. Portava camicia e pantaloni di tela grezza e si copriva il busto con l'inseparabile manta a righe verdi, azzurre e rosse. Il giovanotto che si mostrava tanto allegro era il padre dell'angioletto, e in quanto tale godeva di certi diritti stabiliti dalla consuetudine. Uno dei più importanti era bere gratis, e lui ne aveva abusato in modo tale che, al cadere della notte, il troppo alcol ingurgitato aveva prodotto un notevole cambiamento nella natura timida e apatica del legnaiolo.
Con la sbornia il suo carattere malinconico e silenzioso era diventato violento e attaccabrighe, e il suo atteggiamento aggressivo finì per turbare l'armonia della festa al punto che il padrone di casa, stanco dell'ubriaco disturbatore, lo prese per il collo e lo trascinò in strada, dove lo gettò a terra con un pugno, stordito.
La luna brillava nel cielo disseminato di stelle, quando El Chucao riprese i sensi. Si tirò su con il viso rivolto verso la casa, che spiccava con il suo tetto di canne e le mura di fango bagnate dal dolce e latteo splendore che fluiva dall'alto. I suoni dell'arpa e della chitarra e le rauche e stanche voce delle cantanti risuonavano nel silenzio della notte, risvegliando eco lontane nel fondo dei crepacci.
La festa aveva cambiato sede, dato che la compagnia si era trasferita sotto la pergola costruita dietro l'edificio. Intorno alla rustica tavola, illuminata da alcuni lampioncini di carta, i partecipanti alla veglia mangiavano e bevevano con gran chiasso, serviti dal Chispa e da alcune donne che si occupavano con sollecitudine dei commensali.
Il rumore e l'odore del cibo stimolarono il cervello intorpidito del legnaiolo. Il ricordo dell'offesa appena patita finì di schiarirgli le idee e, dopo essersi alzato faticosamente, si avviò inciampando verso la casa. In fondo alla sua coscienza stava nascendo un sentimento confuso, misto di paura e terrore, che lo spingeva in avanti. Senza fare rumore, appoggiandosi alla parete, raggiunse la porta della stanza dove si vegliava l'angioletto; la spinse piano e sporse la testa all'interno. Dentro regnava un gran silenzio, rotto appena dallo sfrigolio delle candele che illuminavano il tavolo su cui giaceva la creatura, in quel momento abbandonata dai suoi gelosi custodi.
Il legnaiolo tese l'orecchio e sbirciò in tutti gli angoli della stanza. Attraverso la porta semiaperta che dava sul cortile arrivava il suono delle voci di quelli che stavano sotto la pergola. Negli occhi verdi del contadino brillò una fiamma improvvisa. Nel suo cervello eccitato dall'alcol era appena germogliata un'idea audace e folle, che fu immediatamente messa in pratica. Avanzò in punta di piedi verso il tavolo e, preso il cadavere del piccolo, lo mise sotto la manta per poi scivolare subito fuori dalla stanza, rapido e silenzioso come un'ombra.
A cinquanta metri dalla casa si apriva l'ampio avvallamento di un profondo crepaccio. Quando ne raggiunse il bordo, il fuggitivo si lasciò scivolare lungo il pendio fino a toccare il fondo, coperto dal fitto intrico dei bambù, attraverso i quali passava il corso rumoroso di un ruscello. Seguendo la via in discesa dell'acqua, il montanaro, con la rapidità dovuta all'esperienza, camminò per un lungo tratto sotto la volta verde. A un tratto sentì un lontano clamore. Si fermò, incerto e timoroso, perché aveva capito che quelle grida indicavano la scoperta del furto e che molto presto avrebbe avuto alle calcagna il ladro di bestiame e i suoi amici, che non gli avrebbero mai perdonato di aver rovinato la festa in modo così insolito. Ma subito si tranquillizzò. In piena notte il crepaccio era un rifugio inviolabile, e quell'ora sarebbe stata una follia cercarlo lì.
Quando sbucò in uno spiazzo debolmente rischiarato dai raggi lunari che filtravano attraverso il fogliame, si fermò a riposare. Tirò fuori da sotto la manta il rigido corpicino della creatura, lo depose al suolo e si distese al suo fianco sull'erba umida. Un minuto più tardi dormiva profondamente, di un sonno reso pesante dalla stanchezza e la sbornia.
Il sole era già alto all'orizzonte, quando il legnaiolo si svegliò. Il suo primo impulso fu quello di scendere fino al ruscello e di immergere il viso febbricitante nell'acqua fresca e cristallina. Quando ebbe spento la sete ardente che gli bruciava la bocca, i suoi occhi si soffermarono sulla creatura con sorpresa e timore. Poi lentamente ricordò e, a mano a mano che i particolari delle scene si andavano precisando nella memoria, il turbamento e l'inquietudine crescevano.
La sottrazione del cadavere era stata un gesto compiuto senza premeditazione, un improvviso impulso di vendetta portato a termine senza pensare alle conseguenze. Ora capiva con chiarezza di essersi cacciato in un bruttissimo guaio, dal quale era meglio tirarsi fuori al più presto possibile. Ma l'inevitabile necessità di affrontare l'ira del Chispa, così gravemente offeso, gli riempiva l'anima di timore ed esitazione.
Si tormentò per un lungo quarto d'ora, cercando il modo di uscire dall'impiccio, e trovò un'unica soluzione accettabile: presentarsi al Chispa e mettere la creatura nelle sue mani. Senza dubbio le avrebbe buscate, perché il ladro di bestiame non era tipo da lasciare impunita un' offesa del genere, ma era anche sicuro che il bandito avrebbe apprezzato una restituzione grazie alla quale avrebbe potuto riprendere la festa che gli procurava dei guadagni così notevoli. Quando, dopo aver valutato il pro e il contro, ebbe preso questa decisione, il suo sguardo si posò con fredda indifferenza sul bianco oggetto che giaceva sull'erba. Trascorse un istante in muta contemplazione e, a un tratto, nel suo sguardo si accese una luce improvvisa. Il piccolo e pallido volto, sul quale la morte aveva impresso la sua orma profonda, era circondato da un'aureola di capelli d'oro ricci e setosi. Negli occhi chiusi dal sonno eterno e nelle manine incrociate sul petto c'era una quiete così dolce e serena che il legnaiolo sentì smuoversi, nel profondo di sé, qualcosa di potente e confuso.
Come un torrente che esca dal suo letto, un'ondata di ricordi gli investì la mente. Tutta la sua oscura vita di servo gli passò davanti. Il monotono panorama era fatto di lavoro e miseria, ingiustizie e spoliazioni. Solo un raggio di luce, rappresentato da un bambino biondo e roseo, interrompeva il grigio dei ricordi.
Tra le scene e i particolari piacevoli che gli tornavano alla memoria, ricordò la gioia che aveva provato quando il bimbo aveva cominciato a balbettare le prime parole. Allora le sue mani callose lo sollevavano da terra come un oggetto fragile e prezioso. Lo metteva a sedere sulle proprie ginocchia e lasciava che i ditini grassocci gli tirassero i baffi e la barba. E siccome le sue labbra maldestre erano incapaci di modulare i vezzeggiativi con cui si cullano i piccoli, si accontentava di sorridergli e di fischiare imitando il canto di qualche uccello della foresta. Il lavoro era duro, le privazioni innumerevoli, ma quando, stanco e sudato, la sera tornava al rancho con l'ascia sulle spalle, la presenza del piccolo che gli andava incontro, alzando le braccine verso di lui, gli faceva scordare la stanchezza e le idee nere che si impadronivano della sua mente non appena la fine del lavoro consentiva ai muscoli di riposare. Allora una sensazione profonda e dolcissima cancellava ogni traccia di fatica e pessimismo, come se un balsamo meraviglioso placasse all'istante le torture morali e fisiche dello spirito e della carne.
Un giorno il bambino si era ammalato: il suo corpicino ardeva come brace, e piangeva chiedendo acqua con accorata insistenza. Tre giorni dopo, nonostante tutti i rimedi che gli aveva prescritto una famosa guaritrice, il bambino era morto.
Quando lo aveva visto immobile nel letto, con i pugni contratti e gli occhi bianchi e rovesciati, si era sentito prendere da una rabbia sorda contro il destino avverso che non si stancava di perseguitarlo. Il pianto della moglie aveva finito per esasperarlo, e, per non sentire i suoi lamenti angosciosi, aveva abbandonato il rancho e si era inoltrato nella foresta. Il silenzio del bosco e la serenità del cielo in cui brillava un sole splendente avevano allentato la tensione nervosa e placato il disordine che regnava nella sua mente. Ma, appena superata la crisi, la sua gretta anima di contadino aveva recuperato le caratteristiche ancestrali.
L'usanza voleva che quando moriva un bambino se ne festeggiasse il trapasso con musica, canti e danze. Se i genitori potevano sostenere le spese, la festa si celebrava nella loro casa, ma più spesso accadeva che dietro pagamento di una certa somma cedessero il cadavere a qualche persona avida. Nella foresta quello che pagava i prezzi migliori per gli "angioletti" era El Chispa, che si incaricava anche della sepoltura nel cimitero del villaggio più vicino.
Quello stesso giorno il corpo ancora tiepido della creatura era in possesso del ladro di bestiame, e mentre la madre tornava alla capanna con le monete ricavate dalla vendita legate nelle cocche del fazzoletto, lui, il padre, dava inizio alla celebrazione della veglia funebre scolandosi un gran bicchiere di acquavite. Poi gli tornarono in mente i dettagli di quella festa sfrenata, quel vergognoso baccanale in cui aveva avuto parte così attiva. E ora, di nuovo complice, cercava di far ricominciare l'orgia restituendo il bambino.
A questo punto una ruga profonda si incise sulla stretta fonte del legnaiolo. Dal profondo della coscienza, una voce gli diceva che quel gesto era senza perdono agli occhi di Dio. Inoltre l'oggetto della profanazione era suo figlio, carne della sua carne, l'essere al quale doveva le uniche gioie della sua vita tormentata. Fissò a lungo e intensamente il viso marmoreo del piccolo. La luce del sole, filtrando attraverso i rami, faceva risaltare la sfumatura dorata dei capelli ricci. Con gli occhi chiusi, tranquillo nel suo letto d'erba, sembrava dormire tanto placidamente da far pensare al contadino, sia pure per un secondo, che quanto la sua memoria aveva rievocato fosse soltanto un incubo dovuto all'alcol.
I suoi occhi umidi continuarono a contemplare quel viso che gli ricordava istanti felici e indimenticabili. Uno strano turbamento si impadronì del contadino. Nella dura scorza della sua anima si era aperta una breccia e attraverso di essa entravano a fiotti la tenerezza e la pietà. E allora si rese conto della mostruosità di certe pratiche che la gente si ostinava a mantenere vive, anche se quegli atti innominabili suscitavano ormai la ripugnanza di molti. No, suo figlio non sarebbe servito da pretesto perché simili fatti vergognosi si ripetessero. E ricominciò a riflettere su come risolvere quest'altro aspetto del problema.
A un tratto trovò la soluzione: avrebbe nascosto il cadavere nel burrone, sarebbe sceso a valle, avrebbe chiesto al capataz un anticipo in denaro per pagare la sepoltura nel cimitero del villaggio, e, strada facendo, avrebbe avvertito il becchino perché scavasse la fossa. Al ritorno avrebbe tirato fuori il corpo dal suo nascondiglio e lo avrebbe trasferito al camposanto, dove l'amico becchino sarebbe stato in attesa di portare a termine il suo funebre compito. Poi avrebbe restituito al Chispa il lussuoso sudario e il denaro ricevuto dalle sue mani.
Senza perdere tempo, si mise a cercare il nascondiglio che gli serviva, ma, temendo che durante la sua assenza gli animali o gli uccelli rapaci attaccassero il cadavere, decise di scavare una fossa proprio lì e di seppellirlo provvisoriamente. Con la larga lama del suo coltello scavò nella terra soffice e spugnosa un buco poco profondo, e una volta terminato rivestì il fondo e le pareti con fronde di felce, una pianta che cresceva in abbondanza sotto il folto ombroso nella tomba improvvisata.
Il legnaiolo guardò il volto del piccolo nello stesso modo in cui una madre osserva amorosamente il figlio addormentato nel suo grembo, e, notando su di lui qualche traccia di terra, si chinò e soffiò via la polvere che si era troppo presto posata sulle guance della creatura. Poi terminò quel penoso lavoro coprendo i resti con un fascio di felci e collocandovi sopra grosse pietre per evitare l'attacco di qualche animale. Prima di andarsene tese l'orecchio ai rumori del burrone e, non scoprendo in essi nulla di sospetto, lanciò un'ultimo sguardo al piccolo tumulo e si allontanò, scomparendo rapidamente nel fitto intrico della foresta.
Era passata meno di un'ora dalla partenza del legnaiolo, quando, naso a terra, sbucò nella radura un cagnetto dal lungo e sudicio pelo color cannella. Dietro l'animale apparve El Chispa, seguito da vicino da un ragazzone che teneva tra le mani una doppietta. Alla vista del tumulo, attorno al quale il cagnolino girava annusando con ardore il suolo smosso, il ladro di bestiame biascicò un'imprecazione.
- Guarda, Vicente - esclamò , rivolto al compagno - Sultan ha trovato la traccia, ma se il maledetto ladro lo ha sepolto qui, ho paura che il sudario si sia rovinato. Con quello che mi costa! Solo in «carta-smalto» ho speso un peso e cinquanta!
Quello della doppietta non rispose. Aveva deposto l'arma e, inginocchiato in terra, rimuoveva le pietre che proteggevano la sepoltura. Quando, tolte le felci che coprivano il cadavere, quest'ultimo apparve lindo e intatto, El Chispa lanciò un grugnito di soddisfazione. Poco più tardi, allegre grida partivano dalla casa del ladro di bestiame, mentre una voce di donna, acuta e stonata, cantava con accento stentoreo:
Con che gioia l'angioletto
Se ne va glorioso in cielo...

Note: traduzione di Francesca Lazzarato
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