FSM 2007: Nairobi and the mirror

Fabrizio Floris (Università di Torino)

Forum sociale mondiale, Nairobi Kenia Nairobi è una città di gente in fila. Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file di persone davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l'autobus. Una città preda dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi. E' una città soprattutto individualista dove puoi restare a terra ferito ore fino alla morte se non hai del denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. E' un luogo di potere esercitato in ogni campo: non si contano i casi di corruzione, di furto, di doppie contabilità all'interno di scuole, ospedali. Quello che sembra più mancare è la fiducia, la capacità di vivere insieme. L'altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questa apartheid sociale è il frutto di una cultura politica che si è sviluppata e che vive senza aver bisogno degli altri, che muove la gente come pedine attraverso pochi spiccioli modifica le sorti della storia di un popolo. "La legge in Kenya non esiste" ripetono in molti "conta solo chi ha soldi". Ben ha una birreria ha pagato dei ragazzi per sequestrare una donna, l'anno tenuta nascosta per cinque giorni violentata e seviziata è stato arrestato per omicidio, ha pagato e dopo due giorni era di nuovo nel suo locale come emblema vivente e modello che entra nella mentalità dei giovani: il 75% della popolazione.

Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri schiacciati come sono dai problemi personali, forse questo è un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O non è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che la caratterizza è l'eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens così gli statiunitensi chiamano i sud americani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango nelle quali pagano l'affitto per poterci restare.

Nairobi è una città di predicatori. Come i gatti li trovi puntuali all'ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio, autoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, sembra di essere davanti ad un candidato alle presidenziali invece urlano per dire che c'è un solo dio, ma quale?

Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori internazionali e nelle vene dei malati di aids così come nella cultura: incapace di creare una sintesi tra istanze differenti.

Il "buco" più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po' come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla cresce più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica così hanno trasformato le case basse in grattacieli, ma non si può ingannare la crescita di un bambino così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i kenyani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina, cammina quando non c'è l'elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario a lavoro, e sa essere felice, donare un sorriso ed una stretta di mano, ridere e scherzare. Per noi che cerchiamo di catalogare tutto questa città ci mette in ginocchio, vorremo distruggerla, ma per chi vive il tempo della vita, il Kairos anch'essa è terreno buono per seminare aspettando che germogli il grano.

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