Movimenti euroradicali dopo il no francese alla Costituzione europea

Primi appunti sulle possibilità sopite dei movimenti euroradicali a venire dopo il no francese alla Costituzione europea.
21 giugno 2005
Giuseppe Allegri

Indice:

1) L’ultimo referendum di Jacques “Bonaparte” Chirac.

2) Il «no» al Trattato costituzionale europeo dalla Francia profonda e da quella precaria e disoccupata.

3) Un voto-sanzione multilivello: plebiscitarismo e crisi della rappresentanza tra populismo e opposizione sociale.

4) L’impasse istituzionale comunitaria e l’euroradicalismo dei movimenti precari.

5) Quale nuovo modello sociale per l’Europa politica come spazio politico globale, aperto, libero, radicale?

1) L’ultimo referendum di Jacques “Bonaparte” Chirac1.

Alla fine l’inesorabile ascesa nei sondaggi del «non» francese al Trattato costituzionale europeo si è materializzata in un duro risveglio per l’élite francese e comunitaria. Jacques “Bonaparte” Chirac aveva provato a giocare lo stimato 67% di pareri favorevoli della cittadinanza francese alla Costituzione europea, sondati nell’estate del 2004, come appello al popolo per ri-legittimare la propria popolarità, in vistoso declino nelle elezioni regionali ed europee ampiamente perse alle urne nella primavera 2004 (solo una regione su 22 è rimasta in mano alla maggioranza gollista di centro-destra al governo in Francia). Il suo richiamo alla nazione francese, appositamente evocato nel tradizionale messaggio del 14 luglio 2004, anniversario storico per gli eredi del 1789 e giorno in cui aveva comunicato la volontà di sottoporre a referendum popolare il Trattato costituzionale europeo, è divenuto il proprio personale de profundis nei confronti di una carriera politica quasi quarantennale, che sembra chiudere ormai definitivamente il ciclo novecentesco della V Repubblica francese.

2) Il «no» al Trattato costituzionale europeo dalla Francia profonda e da quella precaria e disoccupata.

La partecipazione al voto referendario è stata tra le più alte dai tempi del referendum del 1969 (che sancì la sconfitta politica definitiva per l’allora presidente della Repubblica, nonché padre costituente della Costituzione del 1958, Charles de Gaulle) ed ha raggiunto il 69,74% (di poco superiore a quello di ratifica del Trattato di Maastricht del settembre 1992), con il 54,87% (circa 15 milioni e mezzo di elettori) di voti contrari alla domanda posta dal loro Presidente della Repubblica – «approvate il progetto di legge che autorizza la ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa?» (mentre solo poco più di 12 milioni e mezzo di votanti, pari al 45,13%, ha votato «oui»).

Da una prima lettura ed interpretazione dei dati referendari sembra verbalizzarsi una differenza di pronunciamento tra le grandi città (Parigi, Lione, Strasburgo, Tolosa, etc.), ampiamente favorevoli, e la cosiddetta Francia profonda, dei piccoli agglomerati e delle campagne, ma anche dei distretti industriali in crisi (c’è una corrispondenza immediata tra le regioni con alto tasso di disoccupazione e l’incidenza del pronunciamento negativo), che invece rifiutano radicalmente il Trattato costituzionale. Da notare il paradossale no massiccio nei piccoli e medi borghi rurali, gli stessi che usufruiscono in maniera decisiva di ampi finanziamenti comunitari, stanziati tramite la Politica agricola comune (PAC).

È un no forte e deciso, pronunciato da quella parte della cittadinanza francese che in prima persona vive l’impoverimento dei livelli di vita, la precarietà, quando non l’assenza, del lavoro, la riduzione delle garanzie sociali, etc.: insomma la crisi irreversibile dei sistemi di protezione dello Stato provvidenza francese, con in più l’aggravante di percepire un’Europa sempre più antisociale2. Ma è un no che mescola, terribilmente, l’opposizione sociale al Governo Chirac-Raffarin, così come il rifiuto delle politiche liberiste (che siano di provenienza nazionale o comunitaria), insieme con l’arroccamento identitario, che fa delle differenze etnico-culturali una pericolosa arma di attaccamento al suolo, intollerante e xenofobo.
1. Questa boutade l’avevamo proposta pochi giorni prima del 29 maggio in G. Allegri, L’ultimo referendum di Jacques Bonaparte Chirac, in www.centroriformastato.it/crs/Testi/passaggi_in_europa/Allegri 2. Così il filosofo di origine bulgara, ma francese d’adozione, Tzevetan Todorov in un’intervista a La Repubblica, 1 giugno 2005, p. 15, il quale sottolinea che in «Francia si sono alleati il populismo di destra e quello di sinistra». 3) Un voto-sanzione multilivello: plebiscitarismo e crisi della rappresentanza tra populismo e opposizione sociale.

Dal punto di vista della crisi strutturale dei meccanismi della rappresentanza parlamentare il dato politico immediato, che verbalizza un assoluto scollamento tra la rappresentanza politica e il sentire diffuso dell’opinione pubblica francese è sintetizzabile nei numeri che hanno accompagnato la revisione del Titolo XV della Costituzione francese per adeguarla al contenuto del Trattato costituzionale europeo (ca. 90% dei voti favorevoli del Parlamento riunito in Congresso: 730 voti favorevoli contro solo 66 voti contrari) e dal pronunciamento collettivo dei maggiori partiti (UMP, Udf, PS) ed uomini politici di Francia. Tre anni dopo l’ingresso al ballottaggio presidenziale dell’antisistema Jean-Marie Le Pen, si ripete il rituale elettorale che sanziona inesorabilmente l’arroccato mondo politico delle istituzioni rappresentative francesi. Questo sembra essere il messaggio immediato che traspare dal voto del 29 maggio scorso: mentre le istituzioni sembrano bloccate da una maggioranza immobile e destinata a riprodursi da sé, fuori il malcontento si diffonde e sedimenta nelle congiunture elettorali e referendarie, anche quelle meno appropriate, in cui la posta in gioco è apparentemente altra, rispetto al mandare o meno a casa un Governo. Perciò con un colpo solo si chiude il cerchio (aperto nella primavera del 2004 con le sconfitte alle regionali e all’Europarlamento per le forze di governo francesi) intorno al duo Chirac-Raffarin e si prova a bloccare il processo di ratifica del Trattato costituzionale.

L’insoddisfazione e l’aperta ostilità che ha caratterizzato molti movimenti collettivi degli ultimi anni (si pensi alle mobilitazioni dei lavoratori intermittenti, ricercatori, studenti, etc.) nei confronti delle politiche sociali ed economiche del Governo Chirac-Raffarin ha incontrato una lettura diffusa del Trattato costituzionale nel senso di un’interpretazione schiettamente neoliberista del suo impianto strutturale: al voto-sanzione nazionale si è aggiunto il rifiuto di procedere in un’integrazione economica-monetaria che troppo sembra sacrificare delle tradizionali garanzie dell’État providence francese. Con una battuta si potrebbe parlare di voto-sanzione multilivello, perché avrebbe voluto produrre effetti a più livelli politico-istituzionali: colpire la maggioranza governativa francese ed insieme il Presidente della Repubblica, ma anche quello che avrebbe dovuto essere il «padre costituente europeo», quel Valéry Giscard d’Estaing presidente della Convenzione, quindi ovviamente l’èlite comunitaria fautrice di questo processo di integrazione. In particolare nell’opposizione sociale e politica al duo Chirac-Raffarin, accanto alle previste dimissioni del Primo ministro, si aspirava a riprodurre un nuovo 1969, per Chirac ora, come per de Gaulle ai tempi: da Presidente della Repubblica alla fine della carriera politica, il tutto in virtù di una lettura immediatamente plebiscitaria del referendum nei confronti degli uomini di potere, lettura che è condivisa dai vertici delle istituzioni e dalla base elettorale; è il leitmotiv del cesarismo–bonapartismo–gollismo che accompagna ormai da due secoli la vita istituzionale francese. A questo «voto di protesta»3 si aggiunge la tradizionale postura sovranista, istintivamente in difesa della specificità francese, parzialmente diffusa nell’opinione pubblica francese e che politicamente è rappresentata da sovranisti di destra come di sinistra; quindi un ruolo tradizionalmente considerevole nell’opposizione all’Europa lo ha giocato il nazionalismo xenofobo e identitario di J.-M. Le Pen: si rifiuta l’integrazione continentale in nome delle piccole patrie e dell’attaccamento al suolo e al sangue (tutte le opposizioni nazional-identitarie, più o meno cripto-fasciste), mentre al centro non si perde l’occasione per riproporre il dibattito, e quindi l’inclusione, intorno alle radici cristiano-giudaiche dell’Europa. Una sorta di caravanserraglio delle peggiori rivendicazioni identitarie del lato più oscuro della tradizione continentale, che a lungo ha martoriato il primo Novecento europeo. Gli effetti di questa tremenda convergenza portano ad un ulteriore arroccamento di Jacques Chirac, primo tra gli sconfitti e la cui carriera politica sembra inesorabilmente orientata verso un grigio declino, il quale non rinuncia a nominare Primo ministro il suo fedelissimo uomo Dominique De Villepin, pur essendo costretto (dalla maggioranza rumorosa dell’UMP) ad affiancargli il rivale Nicolas Sarkozy, che nel futuro Governo sarà il numero due: Ministro di Stato, vice del Primo ministro e Ministro dell’Interno. La generazione dei cinquantenni lancia la rincorsa per le presidenziali francesi del 2007, in cui sembra essere in posizione privilegiata il brillante Sarkozy – già Ministro dell’Interno e delle Finanze con i precedenti Governi Raffarin I e II. Per ora il Governo de Villepin – Sarkozy (converrà chiamarlo così, d’ora in poi) si trova dinanzi il triplice connesso problema della disoccupazione, crescita economica e impoverimento diffuso dei livelli di vita: c’è già che plaude ad un «elettrochoc liberale»4 e questo sembra essere davvero il primo, terribile ed immediato, effetto dell’alleanza referendaria populista di cui si parlava poco sopra. A dimostrazione che la fuoriuscita di una critica al neo-liberalismo può portare ad una radicalizzazione populista e liberista. Mentre la sinistra istituzionale è definitivamente a pezzi, spaccata in due tronconi apparentemente incomunicabili, che rischiano di riprodursi anche all’interno dello stesso PS. Da una parte la sinistra estrema comunista e trotzkista radicalmente per il no cui si aggiunge, in posizione eccentrica però, l’opposizione sociale altermondialiste e quindi il numero due socialista Laurent Fabius (grigio tecnocrate dell’Europa dell’Atto unico e di Maastricht), strategicamente assestato su un’opposizione al Trattato che sta giocando (e continuerà a giocare) per coronare il «sogno, coltivato, sembra, sin dalla più tenera giovinezza, di diventare presidente della Repubblica»5. Dall’altra parte la dirigenza socialista presieduta dal segretario François Hollande, ma frequentata sempre dalla generazione degli elefanti (L. Jospin, D. Strauss-Kahn, J. Lang), che persegue il sogno dell’alternanza, ma è incapace di prospettare un qualsiasi progetto di società che coinvolga almeno un frammento delle forze sociali disponibili al miglioramento dello status quo ed è ormai completamente abbandonata dalla sua tradizionale base elettorale (operaia, per quel che ne rimane, impiegatizia, professori, etc.).
3. Per dirla con le parole di R. Artoni, Vince la paura dell’Europa antisociale, intervista fatta da A. Fabozzi in il manifesto, 7 giugno 2005.
4. Analisi degli economisti riportata da A. Rovan, Le trois défis du nouveau gouvernement, in Le Figaro, 31 maggio 2005.
5. Parole di Marc Lazar, La sinistra francese e il peso di quel No, in La Repubblica, 1 giugno 2005, p. 18.

4) L’impasse istituzionale comunitaria e l’euroradicalismo dei movimenti precari.

Il doppio no francese ed olandese del 29 maggio e 1° giugno sembra generare una sorta di stallo del percorso di ratifica nazionale del Trattato costituzionale. Ulteriore prova di questo arresto la dà il Governo inglese quando dichiara di sospendere la procedura referendaria nazionale sul testo del Trattato costituzionale, mentre sembra muoversi in direzione opposta l’Irlanda che non cede sul proprio referendum (ma con un’opinione pubblica che già in precedenza si era espressa contro l’evoluzione dell’integrazione comunitaria), così come Portogallo, Grecia e Svezia che sembrano intenzionate a proseguire nel loro percorso di ratifica. In realtà la gran parte degli analisti politici sembra orientata nel senso di ritenere oramai quasi abbandonato il testo del Trattato. Nei prossimi mesi potrebbe assistersi ad una tendenza di ripensamento procedurale e sostanziale del processo di costituzionalizzazione. Per un verso l’intera questione potrebbe essere rimessa nelle mani delle istituzioni comunitarie, ma dando un ruolo decisivo, centrale, al Parlamento europeo (organo a mandato universale e diretto delle cittadinanze d’Europa), come promotore di una ridiscussione del contenuto della futura Costituzione europea. Ciò dovrebbe avvenire, non solo in connessione con il Consiglio europeo e la Commissione, ma soprattutto sfruttando meccanismi di dialogo interparlamentare tra quei Parlamenti nazionali che hanno maggiore sensibilità europeista, in modo da provare a parlamentarizzare il percorso di costituzionalizzazione continentale. In questo contesto sembra si possa provare a ridurre il contenuto del Trattato costituzionale solamente alle prime due parti (organizzazione istituzionale e Carta dei diritti fondamentali), più la IV parte che riguarda le procedure di revisione, escludendo così la III parte, riguardante le politiche ed il funzionamento dell’Unione, la cui costituzionalizzazione ha da sempre destato non pochi stupori. È un’ipotesi di piccolo respiro dal punto di vista dell’immaginazione politica, ma ha l’indubbio pregio di sfruttare meccanismi istituzionali preesistenti e agli occhi di chi la propone (che comunque sembra rappresentare solo una porzione delle élites comunitarie e nazionali), permetterebbe di riavviare gli strumenti tradizionali della democrazia rappresentativa; certo dovrebbe esserci il minimo, ancorché insufficiente, comun denominatore di aspirare a definire un’Europa autenticamente federale e democratica. Ad ogni modo questa ipotesi rischia di continuare a non fare i conti con la «la crisi di legittimità e l’incapacità di consenso»6 che attanaglia l’Europa istituzionale, mentre per converso fanno capolino le più tradizionali ipotesi di avviare cooperazioni rafforzate per dare vita ad un nucleo duro iniziale di Europa politica7.

Proprio nel rapporto tra consenso ed immaginazione politica dovrebbe essere svilupparsi il campo di azione delle minoranze attive dei movimenti sociali europei, che ormai da un decennio vanno riempiendo il vuoto politico lasciato dai tradizionali partiti di massa della sinistra e dai sindacati nazionali ed europei. È questo un ambito che merita ben altra analisi ed attenzione, rispetto alle poche note che si propongono in questa sede; ciò non toglie che valga la pena porlo come il problema politico-culturale centrale dinanzi alla crisi dei meccanismi istituzionali comunitari e nazionali8. È un lavoro che prima o poi andrà fatto: incrociare l’agitazione di quelli che diverranno i movimenti globali, e che già nella seconda metà degli anni ’90 andavano sperimentando marce europee e azioni pubbliche continentali, con i percorsi autoreferenziali di trasformazione della struttura istituzionale comunitaria [dalle due Convenzioni (1999-2003) alla redazione del Libro bianco sulla Governance (pubblicato nel 2001, ma pensato e redatto su di un lavoro decennale della Commissione), dalla crisi e formazione delle ultime tre Commissioni europee (presiedute rispettivamente da Santer, Prodi, Barroso) all’istituzionalizzarsi dei processi di governance e comitologia, fino agli attualmente disastrosi processi di ratifica del Trattato costituzionale europeo]. E per far ciò si dovrà partire dalla consapevolezza che la sperimentazione quotidiana di pratiche sociali e comunicative necessita di tempi lunghi, conosce passi falsi, precipita in ripiegamenti escludenti, si avvita in andamenti carsici, anche perché prova a creare un proprio tempo di vita e a non farselo dettare dalla contingenza. Questo scarto tra i tempi porosi, frammentati e al contempo lenti, dell’auto-organizzazione sociale e il tempo compresso e parcellizzato, messo immediatamente a profitto, degli assetti istituzionali consolidati diviene massimamente discordante nel momento in cui anche l’organizzazione istituzionale prova ad autotrasformarsi, come sta succedendo a livello continentale da ormai più di un quinquennio. È evidente che questa impostazione rifiuta di assestarsi su di una lettura riduttiva dei movimenti sociali, che assegna loro una funzione solo distruttiva rispetto allo status quo socio–istituzionale. Qui si vorrebbe invece riconoscere all’incedere (altalenante, transitorio, precario) dei nuovi movimenti una propensione al contempo decostruttiva e costituente: l’esercizio di controllo pubblico e contestazione dei meccanismi di governo allude alla formazione di legami associativi e solidaristici altri rispetto a quelli esistenti, auspicando la possibilità di cortocircuitare teorie critiche e pratiche immaginative dei poteri e dei diritti con l’eccedenza strutturale delle istanze poste dai movimenti. Se si accetta questo livello del discorso varrebbe la pena prendere sul serio il tentativo di leggere altrimenti il rapporto tra le trasformazioni istituzionali continentali e l’emergenza, ancora parziale e frammentaria, di minoranze attive della «società civile europea» che, praticando forme occasionali e transitorie di organizzazione, interrogano direttamente le forme di governo continentali. Quasi si possa giocare una funzione dirompente dell’attivismo dei movimenti, di quella «società civile» europea, ben oltre una semplice «re-immaginazione del costituzionalismo europeo»; ma ponendo invece i frammentari tentativi di rivendicazione delle minoranze attive d’Europa a fondamento di una tensione irresoluta, tra domande di cambiamento e definizioni istituzionali, che costituirebbe il codice genetico di assetti istituzionali permanentemente aperti all’innovazione e a processi di continuo assestamento e correzione. Per di più in una fase in cui, i percorsi avviati al livello centrale delle istituzioni comunitarie difettano di comprensione e consenso da parte della base dei corpi elettorali nazionali. In questo senso le domande di giustizia poste dai nuovi movimenti investono oltre che il corpo sociale, anche le diverse dimensioni istituzionali: le azioni comunicative che informano l’opinione pubblica sulle politiche migratorie, piuttosto che su quelle abitative o sulle condizioni del lavoro precario invadono direttamente il momento istituzionale, sempre nella duplice discordante tendenza di decostruire i meccanismi esistenti e immaginare soluzioni adeguate alle istanze di giustizia che si rivendicano e si vogliono affermare. Attraversare e trasformare gli spazi pubblici esistenti, per crearne di inediti: ecco l’aspirazione politica dei movimenti di creare innovazioni sociali alternative, muovendosi tra cooperazione autonoma e vertenze comunicative, tra azioni collettive locali e campagne pubbliche globali, auspicando lotte politiche per i diritti che giochino un effetto di svuotamento dei poteri e di trasformazione permanente dei rapporti sociali.
6. Così A. Coppola, M. Diletti, M. Toaldo, L’Europa e la paura del “popolo”. Crisi di legittimità, incapacità di consenso, in www.centroriformastato.it.
7. Lo ripropone esplicitamente il filosofo J. Habermas, Soltanto un sogno può salvare l’Europa, in La Repubblica, 9 giugno 2005.
8. Si riprendono qui alcune delle riflessioni proposte, in maniera più completa (almeno quello avrebbe voluto essere l’intento), in Peppe Allegri, Le guerre imperiali e l’Europa che verrà, pubblicato in Posse, L’arte della guerra, maggio 2005, pp. 106-122; intervento nel quale (nonostante il titolo non lo lasci intendere) si provava ad interrogare il ruolo dei nuovi movimenti dell’opinione pubblica europea in formazione, tra le guerre imperiali e l’Europa che (non) verrà. 5) Quale nuovo modello sociale per l’Europa politica come spazio politico globale, aperto, libero, radicale?

In barba alle false scelte referendarie imposte plebiscitariamente dall’alto (le quali con il loro secco no/sì sacrificano il meccanismo vitale della partecipazione democratica, che vorrebbe nessuna opzione esclusa dalla possibilità di dibattito pubblico e di scelta delle cittadinanze) le reti del precariato diffuso battono il loro tempo ed immaginano già le loro lotte politiche per i diritti nel contesto europeo: reddito di cittadinanza, libertà di movimento a partire dai movimenti migranti, servizi pubblici, abitazioni e spazi sociali, accesso alle nuove tecnologie, beni comuni e nuovi saperi, tempo liberato e comunicazione…ecco il nuovo contratto sociale europeo rivendicato dalla generazione di precari-e che vive già lo spazio europeo come immediatamente praticabile. L’esperimento locale–continentale della rete EuroMayDay sembra muoversi in questa prospettiva: mettere in relazione orizzontale l’auto-organizzazione (laddove ci sia) delle forze lavoro precarie e, al contempo, creare uno spazio pubblico di risonanza comunicativa alle condizioni di lavoro precarie e delle loro lotte. La scommessa sarebbe quella di conciliare il momento locale, di apertura vertenziale per il riconoscimento di diritti sociali e garanzie sganciate dalla prestazione lavorativa, con la prospettiva di realizzare una campagna continentale che leghi i nodi delle reti precarie sulla questione reddito, estensione delle diverse generazioni dei diritti e affermazione di nuovi diritti e nuove forme di welfare, improntate a flessibilità e sicurezza (flexicurity), ma affrancandole dall’attaccamento alla schiavitù lavoristica. Dare una permanenza alla rete EuroMayDay, significherebbe rendere operativo un dispositivo di rivendicazione e affermazione permanente di garanzie per le nuove soggettività dei movimenti sociali del lavoro precario, intermittente, transitorio, occasionale: lotte politiche per i diritti e sperimentazione di forme inedite di democrazia radicale. Reddito di cittadinanza come esigenza strategica per le pratiche autonome di pensare ed organizzare una buona e dignitosa vita qui ed ora: per tenere dentro erogazione monetaria insieme con libero e gratuito accesso ai servizi sociali, alla casa, alla formazione, etc. E se da una parte tutto ciò investe la capacità dei nuovi movimenti post-Seattle di presentarsi come soggetto molteplice, plurale, complesso e irriducibile a qualsiasi forma di neutralizzazione rappresentativa, al contempo esige l’interrogarsi sulle forme di organizzazione e attivazione delle proprie istanze e rivendicazioni. Come auto-organizzarsi nell’epoca della crisi della rappresentanza e al contempo come pensare e praticare forme politiche inedite, democratiche e sociali, di un Continente alla deriva. Questi interrogativi attanagliano la capacità immaginativa dei movimenti, ma al contempo si inseriscono nel solco di quel percorso che l’intellettualità diffusa europea sta praticando nel ripensare le forme del garantismo sociale: è tutto quel movimento chiamato basic income (Basic Income European Network – BIEN)9, cui faceva riferimento una recente intervista di Richard Sennett apparsa su il manifesto del 1° giugno 2005, che può essere investito dalle nuove domande di giustizia sociale provenienti dai bassifondi dell’Europa delle cittadinanze. Questi sembrano essere alcuni dei nodi da sciogliere nei mesi che verranno, magari pensando subito a come federare quelle reti attive di movimento che nel corso degli ultimi anni si sono mobilitate in Italia, Francia, Spagna, Germania sulle questioni precarietà/reddito, saperi-ricerca/comunicazione, frontiere/libertà di movimento dei migranti. Va da sé che tutto ciò si compone nella prospettiva in cui l’Europa possa essere ancora pensata come via di fuga dall’unilateralismo, sociale e bellico, del modello statunitense, come interposizione regolativa che si frapponga ai meccanismi globali delle guerre permanenti, come spazio disponibile ad essere riempito dall’umanità in fuga dalle barbarie. Ma in questa prospettiva appare quanto mai un’incognita l’affermazione di una nuova classe politica disponibile a mettersi in gioco per definire questo spazio istituzionale delle possibilità europee. È forse la lacuna maggiore che ha investito le istituzioni nazionali e continentali negli ultimi anni: l’incapacità di produrre classi dirigenti all’altezza delle dinamiche (sociali, economiche, politiche, etc.) globali, al punto che si potrebbe senz’altro auspicare una radicale rigenerazione biografica e politica di quelle rappresentanze istituzionali europee e nazionali di cui ora si farebbe volentieri a meno.

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