Intervista a Predrag Matvejevic

L'Europa ferita da egoismi e paure

4 giugno 2005
Umberto de Giovannangeli, Predrag Matvejevic
Fonte: L'Unità - 02 giugno 2005

02 Giugno 2005

di Umberto De Giovannangeli

«SE UN MERITO il “no” francese ha avuto, è quello di aver scoperchiato un “vaso di Pandora” che in molti, e non solo in Francia, preferivano celare. Un “vaso” con il suo arroccamento identitario, la paura del diverso da sé, la presunzione che l’Europa allargata altro non dovesse essere che una Grande Francia. Quel voto rappresenta una vittoria di Pirro per la grandeur francese: perché in nome dell’autonomia nazionale ha indebolito il potere contrattuale nei confronti degli Stati Uniti non solo dell’Europa ma della stessa Francia». L’Europa della paura e delle chiusure analizzata dall’intellettuale il cui percorso culturale e è umano è stato quello di costruire, nel vivo dell’«inferno balcanico», «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte: Predrag Matvejevic.
Il «no» francese è anche un «no» di paura all’Europa allargata?
«Se un fattore positivo quel “no” ha avuto è di aver svelato ciò che non si voleva vedere. Dal “vaso di Pandora” del rifiuto francese è uscito fuori il conservatorismo, la paura di uno smarrimento identitario, la perdita di sovranità. Quel “no” è intriso di diffidenza nei confronti di quanti sono intesi come altro da sé, siano essi polacchi o turchi. È un “protezionismo” culturale, identitario, prim’ancora che sociale. Si è inteso alzare i “ponti” levatoi a quanti bussano alla porta di una Europa allargata. Ma neanche la Francia della grandeur può vivere e prosperare come una fortezza arroccata, sotto assedio. Il protezionismo è l’antitesi di una grandezza che non ha timore di aprirsi al nuovo».
C’è un sentimento che accomuna le tante ragioni del «no»?
«È la paranoia dell’”esagono” francese assediato. Una paura derivata anche dal fatto che si è più discusso attorno alla Costituzione che sulla Costituzione in quanto tale. La paura di una perdita di identità, il timore per l’allargamento ai “diversi” hanno poco a che fare con i contenuti della Carta costituzionale e molto con la volontà di non rimettersi in discussione rifiutandosi di puntare ad una Europa politicamente unita e culturalmente plurale. L’Europa unita è uccisa dalla paura e dagli egoismi pseudocomunitari. Ma quella consumatasi in Francia è una vittoria di Pirro...».
In che senso, professor Matvejevic?
«Perché si è finito per sacrificare tante cose che l’Europa voleva fare, i cui dividendi avrebbero rafforzato anche le comunità nazionali. Dopo il risultato del referendum francese non si può pretendere di avere una potenza europea a livello mondiale. Quel “no” condanna l’Europa a trincerarsi sotto l’ala protettiva della Nato; la dipendenza dagli Stati Uniti crescerà ulteriormente. Si perde molto più di quanto si guadagni. In nome dell’autonomia nazionale si perde la possibilità di presentarsi dinanzi al mondo come un grande, nuovo, elemento di unità. L’unità dell’Europa. Il processo di costruzione europea subirà quanto meno un forte rallentamento e forse sarà condannato a una stanca routine senza vero sviluppo interno. Negli ultimi tempi si è parlato di una “locomotiva” franco-tedesca trascinatrice dell’Europa. Adesso rimangono i “vagoni” senza locomotiva. Il treno rischia di bloccarsi o di deragliare. I conduttori hanno fallito».
Abbiamo parlato di arroccamento identitario. Cos’altro c’è, di più materiale, nel «no» francese?
«C’è lo spettro, in parte già inveratosi, della disoccupazione di massa. Non va dimenticato che solo 4 (Grecia, Spagna, Polonia e Slovacchia) tra i 25 Paesi dell’Unione Europea hanno un tasso di disoccupazione superiore a quello francese, che comunque tocca il 10%. Il rifiuto dell’apertura è stato concepito come l’antidoto al male, la cura, mentre rappresenta parte del male stesso. L’arroccamento della paura è anche la tomba della sinistra..».
Cosa dice il voto francese alla sinistra europea?
«È un campanello d’allarme che se non ascoltato con la massima attenzione,rischia di trasformarsi per il socialismo europeo in una campana a morto...Il socialismo va ripensato: la spaccatura evidenziatasi in Francia non è la prima nel campo della sinistra, ma non per questo va considerata un semplice incidente di percorso. I socialisti che hanno scelto il “no” hanno rinnegato l’eredità di Mitterrand. Nel nome di un facile populismo, di un protezionismo sociale esasperato, di una difesa identitaria tutta giocata sul rifiuto delle diversità, c’è chi ha pensato di poter costruire una prospettiva di governo fondata sull’unità degli scontenti, sull’unità della paura. Ma è una scorciatoia illusoria, comunque perdente. Non si costruisce una prospettiva di cambiamento con compagni di strada come Le Pen. Nell’atteggiamento di una parte del Psf e di dirigenti come Fabius ho visto un tatticismo furbesco che non fa onore alla sinistra francese. Intercettare il malcontento non vale il prezzo della rinuncia a denunciare la xenofobia verso i popoli dell’Oriente europeo (l’Ucrania) o la Turchia che si celava dietro una certa campagna per il “no”. Viene adesso il momento di una presenza di coscienza. Dolorosa, certamente, ma salutare. Dobbiamo chiederci come andare avanti, su quali programmi, su qui idee forza. L’unione degli scontenti può far trionfare un “No” ma non costituisce un serio investimento sul futuro».
Dall’Europa alla Francia. Paese in cui Lei ha insegnato. Cosa ha significato per la Francia e i francesi questo «no»?
«Dopo più di cinquant’anni, la Francia si credeva europea, accettando l’Europa a condizione che essa fosse simile ad una Grande Francia. L’Europa come proiezione continentale della “grandeur”. In questa chiave di lettura, il “no” francese” costringe tutti a ripensare le nostre identità statali, nazionali e ad un tempo europee».
Professor Matvejevic, c’è chi sostiene che il «no» francese sia anche una sorta di rivincita del popolo contro le élite politiche e tecnocratiche che avrebbero calato dall’alto la Costituzione europea.
«Francamente non vedo dietro il “no” francese una volontà di protagonismo del popolo nella costruzione di una Europa altra rispetto a quella prospettata dal Trattato costituzionale. Questa lettura progressiva del “no” mi sembra piuttosto la ricerca di un un alibi piuttosto che di una spiegazione. Per quanto riguarda le Costituzioni, è molto più importante come si rispettano, come vengono applicate una volta formulate, piuttosto che quello che in esse c’è scritto. La Costituzione di Stalin del 1936 era, sulla carta, la più progressista del mondo contemporaneo, ma è servita, nella sua concreta attuazione, a giustificare i gulag e la repressione di massa. Quelli che dicono “no” vedono la Costituzione come una cosa sacra, come la Bibbia, e non invece come un testo che mano a mano si fa, si costruisce, si completa».

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