Gli Stati Uniti d'Europa
Gli Stati Uniti d'Europa
di Ernesto Rossi
da www.radicali.it
INTRODUZIONE
Da qualche tempo tutti parlano, spesso a sproposito, di federalismo, di Unione e/o Federazione Europea; usano questi termini per dire tutto e il suo contrario. Ernesto Rossi è stato uno dei più grandi rappresentanti nel XX secolo dell’Italia laica, democratica, autenticamente antifascista e federalista europea. E’ appena il caso di ricordare che, confinato dal fascismo nell’isola di Ventotene, assieme ad Altiero Spinelli scrisse quel Manifesto di Ventotene che intendeva essere, ed è, il Manifesto per un’Europa libera e unita. Fondatore del Movimento Federalista Europeo (che avvenne in una riunione tenutasi il 27-28 agosto del 1943 a Milano, nella casa del valdese Mario Alberto Rollier), è stato uno degli animatori del settimanale il Mondo, diretto da Mario Pannunzio ed esponente e militante del Partito Radicale fin dalla sua fondazione.
Per tornare al federalismo: per Rossi significava Stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America o della Svizzera; l’unica struttura costituzionale in grado di consentire ai popoli di convivere pacificamente senza rinunciare all’autonomo sviluppo della loro individualità.
Gli Stati Uniti d’Europa, che sono il miglior scritto di Rossi sull’unità europea e costituisce un classico del pensiero federalista, vennero pubblicati nel giugno del 1944, con lo pseudonimo di Storno, dalla casa editrice “Nuove Edizioni Capolago”, di Lugano: il primo di una collana di saggi a cura del MFE. L’opuscolo è dedicato a Leone Ginzburg e a Eugenio Colorni, che avevano partecipato alla fondazione del Movimento Federalista Europeo, ed erano stati uccisi a Roma dai nazi-fascisti.
L’opuscolo significativamente si apre con un’epigrafe, da un radiodiscorso di Thomas Mann dai microfoni della NBC, del 29 gennaio 1943: “La vera Europa sarà creata da voi stessi, coll’aiuto delle potenze della libertà. Sarà una federazione di stati liberi, che avranno uguali diritti, potranno coltivare la loro indipendenza spirituale, le loro culture tradizionali, e al tempo stesso saranno soggetti ad una legge comune della ragione e della moralità; una federazione europea nel quadro del più vasto della cooperazione economica delle nazioni civili di tutto il mondo”.
GLI STATI UNITI D’EUROPA
di Ernesto Rossi
La distruzione della nostra civiltà
Il problema dell’ordine internazionale, che dovrà instaurarsi al termine di questa guerra, è il problema più urgente, quello che deve avere una precedenza assoluta nella nostra considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici, spirituali che oggi si presentano nell’ambito dei singoli stati.
Se non si arriva a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a ripetizione, coinvolgenti tutti i paesi del mondo, non è possibile salvare la nostra civiltà: siamo alla soglia di un nuovo medioevo.
La guerra totale
La guerra non è più un urto tra eserciti. E’ un urto tra popoli che nella lotta impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite. E’ la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con i più efficienti strumenti forniti dalla scienza moderna, di distruggere il potenziale bellico ed abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto per annientarne l’esercito. E’ un turbine che sradica intere popolazioni dalle terre sulle quali risiedevano da secoli, per sbatterle senza più case, senza mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di distanza; che massacra indifferentemente uomini, donne, vecchi, bambini; che non rispetta né ospedali, né cattedrali, né asili d’infanzia; che riduce a macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
E quel che la guerra distrugge nel campo dello spirito è anche più grave di quel che distrugge nel campo della materia. Discorsi, giornali, cinema, radio, fanno appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia collettiva che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio. Non ci si deve neppure più domandare che cosa può significare la vittoria. Si vuole la vittoria per la vittoria; si vuole la distruzione del nemico; si vuole sopravvivere, anche se quel che di noi veramente sopravviverà non meriterebbe in alcun modo di essere difeso. Le falsificazioni, le menzogne sono sistematicamente adoperate come strumenti di guerra alla pari delle bombe e dei siluri. Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della patria. Tutti i valori morali sono sconvolti: la violenza, il misconoscimento d’ogni regola di vita civile, l’odio che non ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati, divengono abiti spirituali in luogo del rispetto della vita umana, dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso di responsabilità individuale.
Conseguenze politiche della pace armata.
Ed anche quando la guerra non è in atto, la sua minaccia sovrasta come un incubo ed avvelena i pericoli di pace, determinandone le caratteristiche essenziali.
Le passioni antisociali, scatenate dalla guerra non si acquietano all’interno dei diversi paesi quand’essa viene a cessare: non più contenute entro i tradizionali istituti giuridici, ormai barcollanti o crollati, in modo disordinato si precipitqano da tutte le parti, riconducendo la lotta politica alle sue primordiali forme di lotta armata tra opposte fazioni.
Le libertà vivono solo in quanto il potere è decentrato in modo da consentire un reale interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, e la vita politica si articola in numerosi corpi intermediari tra l’individuo e lo stato, nati spontaneamente per l’associazione di tutti coloro che hanno gli stessi interessi e gli stessi ideali. Ma un tale decentramento ed una tale articolazione contrastano con gli obbiettivi che i governi devono proporsi durante i periodi di pace armata. I maggiori risultati nella preparazione della guerra si raggiungono indirizzando a tal fine tutte le forze economiche, demografiche e spirituali, secondo un piano d’insieme, studiato ed attuato da un governo centrale che abbia il massimo di potere, ed il massimo di continuità: cioè in uno stato dispotico e totalitario. Quelli che sono i pregi della democrazia per l’organizzazione della vita pacifica ne diventano i maggiori difetti, quando ci si pone dal punto di vista dell’efficienza bellica. Nell’urto tra stati democratici e stati totalitari i primi – per la pubblicità della loro politica, per i frequenti mutamenti delle persone che tengono le leve di comando, per la lentezza con cui prendono le più importanti decisioni, per le opposizioni che devono superare agli aumenti di spese militari ed alla coscrizione obbligatoria – sono vasi di coccio sbattuti contro vasi di ferro. Anche i popoli che hanno una più lunga tradizione di autogoverno e sono più affezionati alle istituzioni liberali vengono inevitabilmente trascinati nel solco dei popoli che accettano un regime totalitario quando questo si dimostra militarmente più efficiente: se tardano a seguirne l’esempio, mettono in pericolo la loro stessa esistenza.
La soluzione del problema internazionale è dunque la premessa necessaria di qualsiasi riforma con cui si voglia dare una maggiore autonomia alla vita politica locale nell’interno dei singoli stati ed assicurare un migliore controllo dei cittadini sui governanti.
Conseguenze economiche della pace armata.
In secondo luogo la pace armata indirizza le disponibilità economiche verso obbiettivi di distruzione, invece che verso obbiettivi di benessere, riduce il rendimento del lavoro, e non consente di elevare il tenore di vita delle classi meno abbienti con una ridistribuzione in loro favore della ricchezza sociale.
Una notevole parte della popolazione viene di continuo tenuta sotto le armi e vive parassitariamente proprio nell’età in cui potrebbe essere più produttiva. Ed un’altra parte viene impiegata a trasformare in caserme, in cannoni ed in altri strumenti di guerra le risorse materiali che potrebbero servire a edificare delle case, a coltivare del grano, ed in generale a soddisfare mille bisogni che ancora rimangono insoddisfatti. Con quel che è necessario alla costruzione di una sola grande corazzata moderna si potrebbe fornire gratuitamente l’alloggio ad una popolazione di una intera città di diverse decine di migliaia di abitanti.
Né queste, a tutti evidenti, sono le passività economiche maggiori. Ce ne sono molte altre che l’uomo della strada non vede, e pur rappresentano un gravissimo onere sull’economia nazionale. Le ferrovie, le autostrade, i porti, invece di essere costruiti per rispondere alle necessità dei traffici, vengono costruiti in funzione delle necessità militari. Si danno sussidi di centinaia di milioni ogni anno agli arsenali e alle compagnie di navigazione per avere la marina mercantile necessaria ai rifornimenti in caso di guerra. Invece di specializzarsi nei beni che potrebbe produrre a costo minore, conseguendo gli altri beni attraverso gli scambi, per godere gli enormi vantaggi della divisione del lavoro nel campo internazionale, ogni popolo vuole fare tutto da sé: sembra che più non apprezzi altri scambi al di fuori delle bombe che possono essere lanciate dagli aeroplani. Con dazi doganali, contingentamenti, divieti di importazione, premi di produzione, ogni collettività nazionale cerca raggiungere la più completa autarchia, per poter vivere e difendersi anche se viene tagliata completamente fuori dalle comunicazioni con le altre collettività. E la politica monetaria, la politica bancaria, la politica commerciale, vengono tutte dirette a questo medesimo fine.
Le spese militari sono alternative alle spese sociali. Quanto più aumentano quelle e tanto più devono necessariamente diminuire queste. I bilanci statali, anche se assorbono più di un quarto di reddito nazionale – impicciolito dagli sprechi e dalla riduzione di produttività causate dall’economia della pace armata – non hanno più margine per le assicurazioni sociali, per la costruzione di scuole e di case popolari, per la estensione dei servigi pubblici gratuiti a favore delle classi meno abbienti, quando la metà o i tre quarti delle entrate sono assorbite, - come ormai solitamente avviene – le spese militari e nel pagamento degli interessi dei debiti contratti a scopi militari.
Così la soluzione del problema internazionale si presenta quale antecedente necessario ad ogni seria riforma economica che si voglia attuare nell’ambito degli stati nazionali.
Conseguenze spirituali della pace armata.
Durante la pace armata tutti i valori spirituali sono distorti e falsati. La famiglia viene tenuta in grande considerazione solo perché è la macchina per fabbricare soldati. Con assegni e con imposte, con facilitazioni ed ostacoli nelle carriere, i giovani sono stimolati a sposarsi e a fare figlioli. Le donne feconde vengono pubblicamente premiate come alle mostre delle vaccine si premiano le migliori fattrici. I figli, poi, fin dalla più tenera età, sono il più possibile sottratti all’influenza dei genitori per meglio prepararli alle marcie, al maneggio delle armi, a “credere, obbedire, combattere”.
La scuola educa i giovani a sacrificare tutto – anche la propria coscienza – alla vicinità dello stato, a pensare che il proprio paese ha avuto sempre ed avrà sempre ragione, a disprezzare quel che gli uomini fanno al di là dei confini, a considerare la guerra come una meravigliosa romantica avventura.
Si trovan sacerdoti disposti a benedire gli strumenti di morte, a fare un altare sopra i cannoni, a interpretare le parole del Vangelo in modo che divengono incitamento all’odio ed alla strage.
L’intellettuale è giudicato un animale inferiore in confronto al pugilista che sa incassare i pugni più violenti, od al podista che resiste alle marcie con un peso in ispalla, La cultura umanistica diventa un lusso superfluo; anzi è tenuto in sospetto, perché rende gli individui più consapevoli della loro distinta personalità, e quindi più restii a lasciarsi intruppare e dirigere da coloro che portano i gradi gerarchici, e ad ubbidire ciecamente agli ordini scritti su carta intestata, con le firme ed i timbri prescritti dalle superiori autorità.
La cosiddetta “intellighenzia” risulta composta di propagandisti e di esperti, giacché non si domandano più opere di significato universale, né ricerche disinteressate dal vero, ma opere che esaltino i sentimenti nazionalistici e perfezionamenti tecnici che possano tradursi al più presto in armi efficienti.
Attraverso la pace armata la guerra così foggia anche gli animi in modo da renderli adatti ai propri bisogni. Nessuna riforma dell’educazione può essere seriamente iniziata per condurre gli uomini a dare alla personalità ed alla solidarietà umana un posto più alto nelle loro scale dei valori se non si riesce prima a stabilire un assetto internazionale che dia ai popoli una maggiore sicurezza di vita.
La guerra totale in atto significa strage, pestilenza, distruzione della nostra civiltà. La preparazione alla guerra ormai significa tirannide, miseria, imbarbarimento.
E’ per questo che la distinzione tra forze reazionarie e forze progressiste oggi non corre più lungo la linea che separa coloro che vogliono modificare in qualsiasi modo lo stato di cose esistente entro i confini dei singoli paesi, ma si pone fra coloro che ostacolano e coloro che favoriscono l’avvento di un nuovo ordine capace di ridurre i contrasti fra gli stati e di rendere più difficili, meno frequenti le guerre.
2. L’ANARCHIA INTERNAZIONALE
La causa prima delle guerre è la mancanza di un ordine giuridico internazionale; cioè la mancanza di una legge che regoli i rapporti tra i diversi stati, di un giudice che, in base a questa legge, dia le sentenze in caso di contrasti, e di un gendarme che impedisca di farsi giustizia da sé, e sappia imporre il rispetto delle sentenze del giudice.
Giudizi errati sulle cause della guerra
Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo, o della malvagia natura degli uomini, o dei sentimenti nazionalistici.
Certo il produttore di armi e di altri gruppi capitalistici possono avere interesse a che scoppi la guerra. Ma questo non significa che la loro volontà sia una determinazione sufficiente per farla scoppiare. All’interno di ciascuno stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse a che divampino incendi che distruggano le città; ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dall’incendio. In ciascuno stato l’ordinamento giuridico provvede appunto gli argini che frenano e contengono le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distrutte prevalgono nel campo internazionale solo perché in esso mancano analoghi argini giuridici.
E’ pure probabile che, in certe occasioni, dei gruppi capitalistici, ottenendo l’appoggio dei loro governi per conseguire la esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, la emissione di prestiti, ed altri privilegi, nelle colonie e nei paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere ad essa perché fan nascere attriti e alimentano pericolosi contrasti fra gli stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale. Se il capitalista di Berlino può fare qualcosa per spingere la Germania alla guerra contro la Gran Bretagna, il capitalista di Filadelfia non può fare niente per spingere la Pensilvania alla guerra contro la Virginia, perché questi secondi stati, a differenza dei primi, non hanno dogane ed eserciti propri e sono entrambi sottoposti ad una autorità superiore – l’autorità federale – che ha una forza sufficiente per imporre il rispetto della legge in tutto il loro territorio.
Né il socialismo, per se stesso, sarebbe un rimedio adeguato alle guerre. Uno stato socialista potrebbe tendere – come gli stati capitalistici – a sfruttare uno stato più debole. Fra società socialiste, come fra società borghesi, potrebbero svilupparsi contrasti di razze, contrasti ideologici sul diverso modo di intendere e di praticare il socialismo, e contrasti economici, derivanti da differenza di ricchezza, dal possesso di passaggi obbligati delle correnti commerciali, o dalla esclusiva disponibilità di certe materie prime. I contrasti che già si verificavano nelle file proletarie, fra bianchi e negri, fra laburisti e marxisti, fra operai specializzati e non specializzati, sono, a questo proposito, molto istruttivi.
E’ pure certo che se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non ci sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale. L’ordinamento giuridico è una necessità, tanto nei rapporti fra gli individui, quando nei rapporti fra gli stati, appunto perché gli uomini sono quello che sono.
D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica li fa nascere, così può farli sparire. La lingua, la razza, la religione, i costumi diversi, non impediscono la pacifica convivenza dei cantoni svizzeri, mentre la comunanza di lingua, di razza, di religione, di costumi, sembra rendano anche più acri i contrasti fra gli abitanti della Bolivia e quelli del Paraguay. Se i cantoni non si fossero uniti in una sola nazione continuerebbero ad odiarsi e a combattersi fra loro come hanno fatto per secoli. Se la Bolivia e il Paraguay, svincolati dalla madre patria, avessero conservata la vecchia unità, nessuno avrebbe mai sentito parlare di un patriottismo boliviano e di un patriottismo paraguayano, in fiero contrasto fra loro.
Il diritto internazionale
Oggi ogni stato afferma, nel modo più intransigente, la sua assoluta sovranità; non ammette alcun limite al suo volere; pretende di essere in ogni caso il solo giudice del suo diritto. E per difendere il suo diritto cerca di raggiungere una forza maggiore degli eventuali suoi nemici, armandosi ed alleandosi con altri stati. La sicurezza conseguita da uno stato corrisponde alla insicurezza, all’accettazione di una condizione d’inferiorità, da parte degli altri.
Il cosiddetto “diritto internazionale” in realtà non è un diritto, perché afferma solo delle norme che le parti osservano finché desiderano rispettarle. In tutti gli accordi internazionali è infatti sottintesa la clausola rebus sic stantibus, per la quale i governi in pratica si ritengono vincolati solo nei limiti in cui l’adempimento degli obblighi, che dagli accordi discendono, non sia, a loro insindacabile giudizio, in contrasto con l’interesse del loro paese.
La più grandiosa e grottesca manifestazione della completa vacuità del diritto internazionale è stata, nel 1929, il patto Kellog, che poneva la guerra “fuori legge”. Quasi tutti i governi del mondo – compresi quelli della Germania, dell’Italia e del Giappone – si affrettarono a dare pubblica prova delle loro pacifiche intenzioni firmando la morte legale della guerra. Stupendi discorsi, scambio di telegrammi fra i capi degli stati, brindisi, felicitazioni, articoli ditirambici sui grandi giornali. Ma di buone intenzioni è lastricato l’inferno. Il patto Kellog, non prevedendo nessuna efficace sanzione, lasciò le cose come stavano prima. La guerra, tutta occupata a massacrare e a distruggere, neppure si accorse di essere stata messa “fuori legge” da tante brave persone.
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