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Consumo critico: quando il biologico si tinge di nero

Riflessioni sulla responsabilita' sociale d'impresa e la grande distribuzione
2 dicembre 2003
Gabriele Garbillo - garbillo@offed.it

Può il biologico italiano essere considerato anche un prodotto etico? O, come si usa dire oggi, un prodotto socialmente responsabile?
Per cercare di approfondire questo concetto partiamo dalla definizione di prodotto socialmente responsabile data nel Workshop sulla Responsabilità Sociale di Impresa tenutosi lo scorso Novembre durante il Forum Sociale Europeo di Parigi. In questa occasione è stato detto che: "... il prodotto deve essere socialmente ed ecologicamente compatibile, non deve cioè generare esternalità negative durante tutto il suo processo, dalla produzione alla distribuzione ...".
In base a questa definizione, una passata di pomodoro biologico, può essere considerata anche socialmente responsabile?
Certamente è un prodotto ecologicamente compatibile, probabilmente di qualità e con caratteristiche organolettiche migliori rispetto a uno convenzionale. Ma cosa sappiamo delle sue "caratteristiche sociali"?
Tanto per intenderci, cosa sappiamo di chi, ad esempio, ha raccolto i pomodori? Aveva un contratto regolare?
E nel caso si sia trattato di un lavoratore extracomunitario, è stato messo in regola con il permesso di soggiorno?
Tutto questo la certificazione bio non lo dice.

Una recente indagine dell'Istat ci dice però che, nel nostro paese, è proprio l'agricoltura il settore economico dove è più forte il ricorso al lavoro nero. Ricorso facilitato dalla stagionalità dell'impiego e dalla disponibilità degli extracomunitari a lavorare nei campi. L'Istat afferma che quasi un terzo dei lavoratori impiegati in agricoltura, per l'esattezza il 32.4 %, lavora in nero. Ma soprattutto va sottolineato che per un lavoratore clandestino il confine che delimita il lavoro nero dallo sfruttamento non esiste.
Il mondo del biologico ha sempre cercato di caratterizzarsi anche per il suo forte valore etico e sociale.
Lo testimoniano l'impegno che alcuni enti di certificazione del biologico e alcune cooperative di produttori bio hanno speso per la crescita dell'agricoltura biologica nei paesi in via di sviluppo, grazie al quale è oggi possibile inserire nel circuito del fair trade numerosi prodotti bio.
Non è certamente un caso se la più importante fiera del settore, il Sana di Bologna, ha aperto i propri spazi espositivi, e non solo, al commercio equo e solidale. È un segnale importante di come il mercato del biologico cerchi, anche attraverso il fair trade, il suo naturale completamento.
Tuttavia la questione rimane: un consumatore che acquista salsa di pomodoro biologico, acquista anche un prodotto privo di sfruttamento?
Forse, se qualche ente di certificazione decidesse di caratterizzare il proprio impegno anche sul fair trade "nazionale", offrendo ai consumatori qualche certezza in più, potremmo trovare una risposta soddisfacente a questa domanda.

Renato Curcio nel suo saggio -"L'azienda totale"- pubblicato nel 2002 dalla cooperativa Sensibili alle Foglie, ha cercato di ricostruire le condizioni di lavoro esistenti nelle aziende della grande distribuzione organizzata. Nato da una ricerca effettuata con alcuni lavoratori e sindacalisti delle grandi catene di supermercati, questo saggio dimostra come in questo tipo di azienda i rapporti di lavoro siano sempre più improntati all'esasperata precarietà e flessibilità dei lavoratori. Indottrinamento, umiliazione, intimidazione sono utilizzati per piegarne la volontà. A volte la semplice iscrizione al sindacato è considerata come atto intollerabile di insubordinazione.
Contemporaneamente però le medesime catene di supermercati sono riuscite a costruirsi, agli occhi dei consumatori, un'immagine del tutto differente da quella che vivono molti dei loro dipendenti. Associando, attraverso importanti campagne di comunicazione mediatica, il proprio nome al mondo del biologico o del commercio equo e solidale e collegandolo ad iniziative di solidarietà, alcune di queste catene tendono ad accreditarsi come aziende socialmente responsabili.
Va anche detto che negli ultimi anni la crescita delle vendite di prodotti bio attraverso la grande distribuzione è stata enorme. Qualcuno parla, probabilmente a ragione, di un vero e proprio boom del biologico grazie alla grande distribuzione.
Tuttavia, nel definire un prodotto socialmente responsabile abbiamo detto che è necessario valutarlo lungo il suo intero percorso: "dalla produzione alla distribuzione".
E allora, abbiamo il coraggio di affermare che un consumatore che acquista una salsa di pomodoro biologico a marchio, acquista un prodotto socialmente responsabile?
Analoga domanda, per forza di cose, ce la dobbiamo porre quando acquistiamo in un supermercato un prodotto del commercio equo e solidale.
In entrambi i casi, molto spesso, la risposta corretta è no.
Anzi, probabilmente dobbiamo cominciare a domandarci fino a che punto il bisogno di espansione del biologico e del fair trade abbia prestato il fianco, più o meno consapevolmente, a queste operazioni di facciata.

Note: [Gabriele Garbillo, giornalista freelance, collabora con riviste telematiche e cartacee. Ha lavorato per l'Associazione Consumatori Utenti ed e' stato Presidente della Commissione di Certificazione Nazionale di AIAB. Tra le sue pubblicazioni: "Consumo Sostenibile - per consumare solo cio' che e' possibile", coedizione FCE (Milano) e EMI (Bologna)].

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