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L'influenza dei polli è roba seria Ma c'è chi specula sull'allarme

ll rischio, gravissimo, che il virus arrivi all'uomo. Eppure l'emergenza asiatica è proficua per industrie dei vaccini e allevatori occidentali
2 marzo 2005
Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it
1.03.05

POlli Il 25 febbraio scorso, in quel di Ho Chi Minh City, si è svolta la prima conferenza interregionale sull'influenza aviaria organizzata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (meglio nota come Fao), dall'Organizzazione mondiale per la salute animale e dall'Oms, l'Organizzazione mondiale della sanità. Dalla conferenza, nella quale si sono incontrati veterinari e ricercatori di 28 paesi, è venuto fuori l'ennesimo allarme sulla salute dei polli asiatici che versa in pessime condizioni da circa un anno, da quando cioè le organizzazioni sopracitate hanno cominciato a diramare terrorizzanti comunicati sull'epidemia. Dall'Asia, ci viene detto, l'epidemia potrebbe sciamare per tutto il pianeta, e siccome umani e polli sono entrambi bocconi prelibati per il virus influenzale, dall'influenza aviaria alla spagnola il passo è breve.

Quanto c'è di vero in tutto ciò è difficile da stabilire. Sulla questione, apparentemente tutta interna al mondo della scienza e della medicina, s'incrociano in realtà gli interessi di numerosi mega-potentati economici - basti pensare al mercato delle derrate alimentari e al farmaceutico - che sanno bene come utilizzare la leva della paura per volgere i profitti a proprio favore. L'industria zootecnica occidentale ha tutto l'interesse a screditare gli artigianali allevamenti asiatici per debellare una concorrenza sempre più agguerrita mentre, nello stesso tempo, un allarme globale potrebbe tradursi in una pioggia di soldi per i produttori di vaccini, se gli organismi di controllo internazionali - che a gran voce domandano fondi per le vaccinazioni di massa dei polli - riuscissero nel loro intento.

Resta il fatto che la crisi dell'influenza aviaria, che compie un anno questa primavera, ha già avuto un impatto devastante sulle economie locali, e soprattutto su quelle di piccola scala dove, a livello di villaggi, ha mandato in rovina allevatori, macellai e piccoli commercianti. Secondo il rapporto stilato dalla Fao, nel 2004 circa il 20 per cento dei lavoratori impiegati negli allevamenti indonesiani hanno perso il posto di lavoro mentre in Vietnam e in Cambogia, dove il mercato del pollame è stato letteralmente distrutto dall'influenza, i prezzi delle proteine alternative al pollo stano crescendo a ritmi esponenziali. Secondo l'Oxford Economic Forecasting l'influenza aviaria ha inciso sul prodotto interno lordo dei paesi dell'area provocando perdite sostanziose che, in tutta l'Asia, possono essere stimate intorno ai 10-15 miliardi di dollari. Fra i 125 e i 150 milioni di uccelli sono morti o sono stati uccisi nel tentativo di arginare l'epidemia che però, almeno secondo i ricercatori riuniti in Vietnam, risulta tutt'altro che debellata.

Dal punto di vista dei pennuti non è molto diverso venire sterminati a scopo preventivo o finire in padella, né l'ennesimo vaccino peggiorerà di molto l'eccesso di medicalizzazione dell'industria zootecnica che tortura gli animali per produrre carni tossiche ed epidemie ricorrenti, come denunciano da anni animalisti e consumatori. Per produrre la - troppa - carne cui siamo ormai assuefatti servono delle vere e proprie fabbriche - gli allevamenti industriali - con il loro corollario d'inquinamento e crudeltà. Solo che gli animali non sono macchine: se li ammucchi uno sull'altro si ammalano, se li riempi di farmaci avvelenano chi se ne nutre, e via di questo passo. E' il mercato bellezza, dice l'antico adagio. Così, mentre da una parte del pianeta gli allevatori si disperano, dall'altra parte del globo - vedi il Brasile - si fregano le mani di fronte alla prospettiva di soppiantare i polli asiatici sulle tavole europee. Il fatto che i polli asiatici siano meno medicalizzati - l'influenza è infatti diffusa soprattutto negli allevamenti rurali - viene sottolineato dalle organizzazioni internazionali che, come al solito, pensano di risolvere tutto con l'interessato aiuto della farmaceutica veterinaria.

Il quadro economico e commerciale, tragico in termini di posti di lavoro ma rassicurante rispetto al catastrofismo dei tg, non deve trarre in inganno: l'ipotesi che possa ripresentarsi una pandemia influenzale come la spagnola del 1918, che uccise circa 40 milioni di persone, non è soltanto una leggenda. Può succedere. Anzi, come scoprirono gli scienziati che per primi misero le mani sulle vestigia del famoso virus, ricavate dai corpi congelati rinvenuti in un accampamento di minatori in Alaska, che prima o poi accada è abbastanza probabile.

I virus, contro cui gli antibiotici moderni sono totalmente inefficaci, c'erano prima di noi e ci saranno dopo perché sono le creature più efficienti e adattabili esistenti in natura. La mutevolezza del rivestimento glicoproteico, per usare un termine tecnico, consente al virus influenzale di rendere inefficaci le difese dell'organismo che si basano proprio sul riconoscimento delle proteine di superficie per attaccare gli intrusi. A differenza di altri virus, quello influenzale muta ininterrottamente, con grande gaudio dei produttori di vaccini che possono commercializzare una nuova formula ogni autunno.

Per il virus la ricombinazione di due proteine, H e N, è fondamentale sia per azzeccare la combinazione invisibile al sistema immunitario umano che per fare il cosiddetto "salto di specie", cioè per passare dagli animali all'homo sapiens. E il virus influenzale è un asso nel transitare per quelli che vengono chiamati "serbatoi animali", ovvero polli e maiali, un passaggio che probabilmente ha un ruolo importante nella sua elevata capacità di trasformazione. Così i ricercatori si ritrovano fra le mani una sorta di slot machine genetica: se il virus azzecca la combinazione giusta - come nel 1968, quando sono morte mezzo milione di persone - sono guai. Ecco perché l'influenza avicola allarma così tanto gli scienziati. Fino a questo momento il ceppo A (che sta per avicola) H5N1 non preoccupava gli infettivologi perché indicava un virus influenzale isolato nel '61, aggressivo fra i polli ma innocuo per gli esseri umani. Ora però si è visto che lo stesso ceppo è in grado di uccidere anche la nostra specie, e il fatto che non si riesca bene a capire perché è ancora più inquietante.

Inoltre, la paura del ritorno di una pandemia simile alla spagnola viene alimentata dalla consapevolezza di quella che gli scienziati chiamano "l'unità microbica" del pianeta. La rapidità dei collegamenti aerei garantisce ai patogeni passaggi molto veloci: per fare il giro del mondo a un'epidemia trasmissibile per via aerea come l'influenza bastano 24-48 ore. Proprio in previsione di questo fenomeno l'Organizzazione mondiale della sanità istituì nel 1952 la Global Influenza Surveillance Network (Rete di sorveglianza globale sull'influenza) con il compito di registrare immediatamente i primi focolai d'infezione e mettere in guardia le strutture sanitarie locali. Quando ci sono visto che, da una ventina d'anni a questa parte, i grandi finanziatori internazionali hanno attaccato in tutti i modi la sanità pubblica. In Africa, Asia e America latina i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario hanno preteso la distruzione dei sistemi sanitari nazionali in cambio della dilazione dei pagamenti del debito estero mentre, dalle nostre parti, pressioni più sfumate ma altrettanto implacabili hanno imposto pesanti tagli sulle spese, sugli stanziamenti per la ricerca e perfino sulle reti di monitoraggio epidemiologiche, quelle che raccolgono dati sulla diffusione delle malattie. L'epidemiologia italiana, un modello invidiato e imitato da molti paesi del mondo, sta letteralmente agonizzando nella penuria di mezzi e ricercatori, mentre la rete dei controlli veterinari - i vecchi istituti zooprofilattici che nel nostro paese impedirono la diffusione del morbo della mucca pazza - sta subendo la stessa sorte. Speriamo che la paura di A H5N1 riesca a provocare un'inversione di rotta nella politica sanitaria globale.


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