Onda anomala, i fattori umani dell'Apocalisse
29.12.04
Se pochi sono gli ecosistemi abbastanza robusti da fronteggiare onde anomale come quella che si è abbattuta sulle coste dell'Oceano indiano domenica scorsa, l'incredibile numero di vittime - che sembra crescere in modo esponenziale di ora in ora - è da attribuire, secondo alcuni esperti, a cause di natura prettamente umana. «Sono molto irritato quando sento parlare di inevitabilità», racconta al telefono Carlo Jaeger, direttore del dipartimento di cambiamenti globali e sistemi sociali all'Istituto per le ricerche sul clima di Postdam, in Germania. «L'onda tsunami ha impiegato diverse ore ad arrivare in alcuni luoghi, nel corso delle quali si sarebbe potuto tranquillamente evacuare le popolazioni interessate. Il problema è che nei paesi colpiti mancano strutture di prevenzione e di azione rapida». Il nesso tra povertà ed effetti devastanti del sisma è evocato esplicitamente da Jaeger, che sottolinea come «in Giappone, un maremoto di queste dimensioni non avrebbe mai fatto un numero paragonabile di vittime». Dello stesso parere Brad Smith, responsabile inquinamento di Greenpeace Nordic che - citato dall'agenzia Reuters - mette in evidenza un altro non trascurabile «fattore umano» nella catastrofe di domenica: a provocare questi disastri - o meglio la loro degenerazione in termini di perdite di vite umane - non è solo la totale assenza di sistemi di identificazione di quanto sta per accadere, ma anche la scarsa attenzione prestata a una gestione oculata dell'ambiente. «Il turismo di massa sconsiderato, che sta distruggendo le barriere coralline, rende ancor più vulnerabile un eco-sistema di per sé assai fragile come è quello del sud-est asiatico», sostiene Smith, ricordando che secondo un rapporto internazionale pubblicato all'inizio di dicembre il 70 per cento delle barriere coralline mondiali sono state rovinate da attività umane - dalla pesca a strascico all'inquinamento delle coste, fino al riscaldamento globale.
La 10° conferenza sul clima delle Nazioni unite, tenutasi a metà dicembre a Buenos Aires nell'indifferenza quasi generale del mondo, metteva in guardia nel suo rapporto finale contro il cambiamento climatico che «può avere conseguenze disastrose sull'Asia meridionale». Jaeger, che era presente a Buenos Aires, non manca di sottolineare come il cambiamento climatico, che certo non è alla base di eventi disastrosi come quello di domenica, può tuttavia avere effetti simili. L'aumento della temperatura del globo e il conseguente innalzamento delle superfici marine può rendere particolarmente vulnerabili regioni povere come quelle colpite domenica. «Il problema - continua Jaeger - è che non c'è la volontà politica per far fronte a queste situazioni. In questo ambito, negli ultimi vent'anni si è fatto ben poco. Con molti meno fondi di quelli dispensati in questa guerra al terrorismo, si sarebbero potute tranquillamente creare strutture solide per gestire disastri naturali».
Oltre al problema della prevenzione e della mancata evacuazione delle zone travolte dall'onda anomala, c'è il drammatico rischio epidemie. In casi come questi, le strutture idriche vengono distrutte e il rapido esaurimento dell'acqua potabile provoca la diffusione di malattie. «Anche in questo caso - continua Jaeger - non è corretto parlare di inevitabilità. Prendiamo due esempi vicini, come Cuba e Haiti. In entrambi questi paesi, nei mesi scorsi si sono verificati disastri naturali di grande portata: ad Haiti ci sono stati migliaia di morti, a Cuba praticamente nessuno. La differenza è semplice: da una parte sono stati sviluppati efficaci sistemi di preavviso e di gestione delle catastrofi, dall'altra no».
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