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Serve un «circolo virtuoso» fra sfruttamento delle risorse, democrazia e tutela dell'ambiente. Parla l'economista Partha Dasgupta

L'ecologia del Pil

«Lo sviluppo non si misura solo sulla crescita produttiva di un Paese, ma anche sui diritti umani e sulla libertà di cultura e di ricerca»
23 ottobre 2004
Edoardo Castagna
Fonte: www.avvenire.it
21.10.04

Partha Dasgupta  Per valutare il benessere di una nazione, di solito ci si affida a indicatori meramente economici. Il Pil pro capite è lo strumento più diffuso, eppure si limita a misurare una ricchezza materiale in un dato momento. Da qualche anno diversi economisti cercano di mettere a punti strumenti più efficaci, in grado di tener conto anche di altri fattori determinanti per valutare lo sviluppo di un Paese. Nel suo saggio Benessere umano e ambiente naturale (Vita & Pensiero, pagine 386, euro 25,00), l'economista di origine indiana Partha Dasgupta, docente all'università di Cambridge, tenta di stabilire strumenti scientifici che includano anche dati come la salute della popolazione, i diritti civili e politici o l'impatto delle attività umane sull'ambiente. «Il prodotto nazionale netto verde, per esempio - illustra Dasgupta - è un indice che riesce a valutare in modo più completo la ricchezza di una nazione. Compresi gli elementi umani e naturali».

Si tratta di una misurazione del benessere sostenibile?

«Non proprio. Il problema della sostenibilità è quello della crescita nel tempo di questa ricchezza. Se la crescita dei consumi di un Paese supera a quella delle sue risorse, allora il suo sviluppo non è sostenibile. Anche se oggi è ricco secondo gli indici di Pnn verde».

Professor Dasgupta, nel suo studio lei ha mostrato l'insufficienza degli indicatori economici che si usano abitualmente per misurare il benessere umano. Perché allora governi e istituti di ricerca continuano a privilegiare questo tipo di dati?

«I dati sul Pil, sull'aspettativa di vita alla nascita o sull'analfabetismo sono ben definiti. Sono stati utilizzati per molti anni. L'interesse principale dei governi è spesso la crescita delle attività economiche, e il Pil fornisce un chiaro indicatore di questo sviluppo. Al contrario, misurare le libertà non solo è più complesso, ma va anche contro l'interesse di tanti governi. Inoltre, queste nuove rilevazioni sono poco famigliari, e richiedono un adattamento a nuovi tipi di nozione. Conta anche l'atteggiamento culturale degli studiosi occidentali. Fino agli anni Novanta molti intellettuali, soprattutto di sinistra come me, si sono dimostrati poco interessati ai dati sulle libertà. C'era il problema dell'Unione Sovietica, e gli intellettuali non volevano parlare delle libertà. Si parlava di crescita economica senza metterla in relazione con la democrazia. Soltanto da pochi anni si riconosce e si studia l'importanza di dati come il numero dei giornali o i dati sulla partecipazione alle cariche pubbliche. Ma occorre superare decenni di inerzia».

Le libertà civili sono una pre-condizione per lo sviluppo economico?

«Indubbiamente concedere la possibilità di esplorare le idee, di fare ricerca, è una ricchezza. Ed è indubbio che oggi i Paesi più ricchi siano quelli con le maggiori libertà civili. In quelli in via di sviluppo, però, il problema è valutare quante libertà i cittadini - nel loro complesso - sono disposti a perdere, pur di godere di migliori condizioni economiche. O almeno di sperarle. La presa che hanno, su certe popolazioni, i modelli integralisti che sfociano nel terrorismo dimostra che non è così scontato l'essere a favore dei diritti umani. E fino agli anni Novanta anche gli economisti dello sviluppo, in Occidente, erano ben poco interessati ai diritti umani. A me piacerebbe credere che i diritti umani siano una pre-condizione dello sviluppo economico. Ma ci sono stati casi - Sud Corea, Singapore - in cui non è stato così. Il quadro è confuso».

La crescita economica viene anche dalla capacità di azione della società civile. Robert D. Putnam ha evidenziato, nel suo studio dedicato all'Italia, l'importanza del capitale sociale e delle reti di relazione informali. Queste reti sono sempre un fattore positivo?

«In genere sì. Istituzioni informali a base volontaria, non direttamente implicate in processi economici, generano fiducia e sviluppo. È il modello, tipico dell'Italia, dei distretti industriali, dove le attività economiche sono stimolate dalla fiducia reciproca e dal sapere specifico diffuso. Ormai il capitale sociale è una componente riconosciuta dagli studi economici. Tuttavia, presentano anche il rischio che questi gruppi spontanei finiscano per favorire più gli interessi privati dei propri membri che quelli della collettività».

Che strada devono intraprendere gli studi sullo sviluppo umano per ovviare a tali limiti?

«Filosofi, scienziati naturali, studiosi della società devono lavorare insieme. Troppo spesso i governi si affidano esclusivamente agli economisti o ai tecnici di settore per pianificare le proprie politiche di sviluppo. Ma per ottenere un benessere umano in armonia con l'ambiente naturale occorre la collaborazione di tutti i settori di studio coinvolti».

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