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Era un vecchio che pescava da solo in una barca persa nella corrente del golfo, ed erano ormai ottantaquattro giorni che non riusciva a catturare un pesce

Sos oceani I due nemici: inquinamento e pesca selvaggia

I due nemici: inquinamento e pesca selvaggia
22 settembre 2004
Daniele Zappalà

. Uno sconfinato catalizzatore della vita sulla Terra. Così appaiono gli oceani a chi ne studia gli umori. È qui che viene generato più del 70% dell'ossigeno presente nell'atmosfera. È da qui che molti Paesi ricavano l'essenziale della propria dieta. È qui, ancora, che si decide che tempo farà in ogni continente. Come ha affermato la scienziata Sylvia Earle, gli oceani «sono la pietra angolare di tutto ciò che fa funzionare il pianeta».
Ma il «mondo del silenzio» - così lo definì il capitano Jacques-Yves Cousteau - ispira oggi alla comunità scientifica tanta ammirazione quanta inquietudine. Espressioni come «declino» e «sopravvivenza del sistema» sono da tempo ospiti fisse delle conferenze di oceanografia. Dove, nell'ambito di un dibattito aperto, si punta il dito su due fenomeni: gli scarichi di inquinanti, dalla terraferma o dalle imbarcazioni, e la pesca industriale, laddove supera certe soglie critiche.

Le spie dell'emergenza ci sono, a cominciare dai dati sul depauperamento ittico. I più allarmanti sono stati annunciati dagli scienziati canadesi Boris Verm e Ransom Myers. Negli ultimi 50 anni, hanno concluso dopo un decennio di ricerche sistematiche, è scomparso dai «sette mari» circa il 90% dei grandi pesci commestibili: tonni, merluzzi, squali, pesci-spada, marlin. In alto mare si è pescato troppo, sostengono. Quando non si è pescato anche male, cioè nuocendo all'ecosistema soprattutto con l'uso delle famigerate reti a strascico. Eccessi spesso inconsapevoli e abusi: due paia di maniche. Ma il cui risultato comune è ormai alla luce del sole. Riconosciuto nella sostanza anche da chi non sottoscrive le recenti stime della «perdita in biomassa».

Occorre trovare in fretta soluzioni efficaci e globali, si è detto nel 2002 al Vertice della Terra di Johannesburg. Varie idee hanno preso corpo, fra cui quella di ampliare le aree marine proibite ad ogni attività "invasiva". Creando una rete di parchi su scala planetaria capace di proteggere il 12% di oceano entro i l 2012 (l'equivalente della porzione di terraferma in qualche misura salvaguardata). La priorità, dicono gli scienziati, va alle «aree critiche». Quelle, cioè, in cui i banchi di pesci si moltiplicano. In proposito, gli esperimenti già effettuati hanno dato risultati sorprendenti. E mostrato, soprattutto ai consorzi di pescatori più scettici, delle ricadute positive in termini di popolamento ittico anche nelle aree limitrofe ai parchi, pienamente accessibili ai pescherecci. In alcune zone, poi, tutela rima con biodiversità. Basti pensare al «Triangolo del corallo» fra Indonesia, Malesia, Filippine, Papua Nuova Guinea e Isole Salomone. Qui vivono quattro varietà su cinque di corallo e metà delle specie di pesci costieri. Tutto in meno dell'1% di oceano.

Il corollario politico dei parchi marini si chiama global governance: regole internazionali più efficaci per fare degli oceani uno «spazio di tutti». Oggi, invece, l'alto mare resta piuttosto uno «spazio di nessuno»: condizione antica e forse romantica, certo, ma anche una porta spalancata agli abusi. Come il riarmo di «carrette» per trasporti commerciali a rischio, il «lavaggio» in mare delle cisterne di grandi petroliere, lo scarico di rifiuti dalle navi da crociera.
I controlli restano insufficienti o vengono aggirati. Anche perché vige, soprattutto per le navi mercantili di grande stazza, la «regola» delle bandiere ombra: le immatricolazioni offerte a tempi di record da Stati come Panama, Liberia, Cipro e un numero crescente di isolotti caraibici. Per gli armatori, spesso, un modo per schivare regolamenti, tasse elevate, convenzioni internazionali, costose revisioni periodiche richieste per le navi con più di 15 anni. Risultato statistico: crescono gli affondamenti. E dunque il rischio ambientale, se si considera che le navi-cisterna coprono da sole un terzo dell'intero tonnellaggio in navigazione. Nel solo 1996, in proposito, hanno fatto naufragio circa 70 petroliere. Il disastro ambientale dell'Exxon-Valdez al largo dell'Alaska, nel 1989, commosse il mondo. Ma paradossalmente, gli indennizzi-record indotti dalla tragedia hanno spinto nuovi armatori nel girone delle bandiere ombra. Le catastrofi continuano.
Gli abusi restano frequenti anche sulla terraferma. Qui scarseggiano depuratori urbani e industriali. I controlli, spesso, latitano. Ad invocare un maggior rispetto dei mari sono pescatori e allevatori costieri. Ma a pagare sono tutti.

I segnali di speranza, per fortuna, non mancano. Uno viene dalle acque di casa nostra e si chiama Pelagos: una vasta area marina (90 mila kmq) fra Toscana, Sardegna e Costa Azzurra dove sarà sempre più tutelata la straordinaria concentrazione di cetacei - soprattutto balene e delfini - che qui si radunano ogni anno fra giugno e ottobre.

 

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