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Il protocollo di Kyoto non è un'utopia. Basta non puntare su un'unica soluzione

Il piano si chiama «contrazione & convergenza»: entro il 2100 tutti gli abitanti del pianeta dovranno avere la medesima soglia pro-capite di emissione di anidride carbonica, attraverso un percorso che prevede per i paesi industrializzati un taglio fino all'80% delle emissioni di anidride carbonica rispetto ai valori di riferimento dell'anno 1990 e per i paesi in via di sviluppo forti e precise limitazioni.
26 agosto 2004
Pietro Greco

Immagini google Nella speranza che l'aumento della temperatura media del pianeta sia contenuta, a sua volta, entro limiti accettabili e non sfugga del tutto al nostro controllo.

Il piano si chiama «contrazione & convergenza»: entro il 2100 tutti gli abitanti del pianeta dovranno avere la medesima soglia pro-capite di emissione di anidride carbonica, attraverso un percorso che prevede per i paesi industrializzati un taglio fino all'80% delle emissioni di anidride carbonica rispetto ai valori di riferimento dell'anno 1990 e per i paesi in via di sviluppo forti e precise limitazioni.

Lo strumento è una nuova politica che rivolti come un guanto il sistema energetico mondiale e sostituisca i combustibili fossili (che producono anidride carbonica) con nuove fonti non carboniose.

Questo è lo scenario post-Kyoto per rallentare l'aumento della temperatura media del pianeta secondo le indicazioni della Convenzione sui Cambiamenti del Clima sottoscritta nel 1992 a Rio de Janeiro da tutti i paesi del mondo e impantanata nella snervante negoziazione del Protocollo operativo detto, appunto, di Kyoto.

Ora, l'obiettivo è condiviso dalla gran parte degli scienziati che si occupano di clima. Il piano, elaborato da un gruppo di studiosi indipendenti, ha già avuto un consenso di massima dei governi di Londra e Berlino, oltre che da una costellazione di organizzazioni e movimenti non governativi. Il guaio è - a parte la volontà politica degli Stati Uniti - che non abbiamo ancora una fonte energetica davvero alternativa ai combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone). I quali oggi soddisfano l'85% della domanda mondiale.

Una volta chiarito che la soluzione non è l'idrogeno, perché è un vettore, efficiente, ma non una fonte di energia (in altri termini occorre energia per produrre idrogeno) la domanda è quella classica: che fare? Come raggiungere gli obiettivi della strategia post-Kyoto «contrazione & convergenza»?

Una prima risposta è: aumentare l'efficienza e diminuire l'intensità energetica (ovvero la quantità di energia necessaria a produrre una unità di ricchezza). E qui gli esempi positivi non mancano. Negli ultimi dieci anni l'intensità energetica nel mondo non ha fatto che diminuire: del 10% nell'Unione Europea, del 12% negli Stati Uniti, addirittura del 52% nell'emergente Cina.

Il fatto è che l'economia è cresciuta molto più velocemente dell'efficienza, cosicché i consumi globali di energia sono aumentati tra il 1991 e il 2001 del 15%. Difficilmente in futuro l'efficienza correrà più velocemente dell'economia. In conclusione: dobbiamo risparmiare ma sapendo che (nel quadro di un'economia di mercato) questa nostra virtuosa capacità è condizione necessaria ma non è sufficiente per risolvere il problemi climatici che abbiamo di fronte.
Puntiamo allora su fonti energetiche alternative che non producono anidride carbonica. James Lovelock, uno degli scienziati di riferimento del pensiero ecologista, ha proposto di puntare sul nucleare: l'unica alternativa che abbiamo a disposizione. Molti rifiutano la prospettiva, perché questa fonte comporterebbe altri rischi ambientali. Questo rischio, considerato già basso da molti analisti, potrebbe essere drasticamente ridotto dal nucleare di nuova generazione. Ma il problema è sia economico che di materie prime: è pensabile che l'energia nucleare possa aumentare di 10 o addirittura di 20 volte in pochi anni per sostituire i combustibili fossili? La risposta è no. Il nucleare può essere una delle opzioni, non l'unica.

E allora puntiamo sulle nuove energie rinnovabili: eolico e solare, in primo luogo. Che godono di buona salute (sono in crescita) e, per di più, sono ecologicamente sostenibili. Ma per loro vale, moltiplicato per dieci, il discorso fatto per il nucleare. A tutt'oggi le fonti rinnovabili soddisfano appena lo 0,8% della domanda energetica mondiale. Potranno in pochi anni, o anche in pochi decenni, raggiungere l'80%? Anche le fonti rinnovabili sono un'opzione interessante, ma non la soluzione del problema.

Allora non c'è nulla da fare? L'idea di contrastare il cambiamento del clima accelerato dall'uomo è velleitaria?
Niente affatto. La possibilità di centrare l'obiettivo della stabilizzazione dell'anidride carbonica in atmosfera è difficile, ma realistico. Può essere raggiunto se invece di cercare «la» soluzione si stabilisce una politica mondiale fondata su molte opzioni flessibili: aumento dell'efficienza, nuove fonti rinnovabili, un nuovo nucleare a sicurezza davvero intrinseca (il cosiddetto nucleare di quarta generazione).

Questa strategia politica di medio periodo avrebbe il vantaggio di risolvere, insieme, due problemi: quello connesso ai cambiamenti climatici (considerati da molti il rischio più grande che in questo momento minaccia l'umanità) e quello connesso all'esaurimento della fonte petrolifera (considerato da molti il maggiore fattore di destabilizzazione in questo momento degli equilibri geopolitici del mondo).

I mezzi non mancano per raggiungere questi obiettivi: si tratta di aumentare la ricerca scientifica e tecnologica nel settore, di modulare norme e strumenti fiscali, di promuovere le buone pratiche, di stimolare e indirizzare il mercato.
Cosa manca, dunque? Beh, sembrerà banale. Ma quello che manca veramente oggi sono le volontà politiche (molti pensano da avere qualcosa da guadagnare in termini economici e/o strategici in un mondo in cui l'energia è un fattore di stress) e, forse ancor di più, la cultura adatta. Molti - forse troppi - pensano che tutta questa faccenda del clima sia un problema differibile e che, per quanto è possibile, è meglio procedere ancora pigramente in regime di «business as usual

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