Senza scampo
Proprio nella settimana in cui il prezzo del petrolio si è impennato fino a 58 dollari al barile, il Senato di Washington ha in sostanza dato il suo sì alla trivellazione nel Parco Nazionale Artico dell’Alaska, un territorio incontaminato sul quale da anni le compagnie petrolifere avevano messo gli occhi. E’ una sconfitta per gli ambientalisti, che in passato erano riusciti a bloccare il progetto, e una vittoria per il presidente George W. Bush, che ne aveva fatto una questione di sicurezza nazionale e aveva ripetutamente invitato il Congresso a dare il via libera ai lavori.
Il voto. Mercoledì 16 marzo il Senato ha respinto con 51 voti contro 49 un emendamento dei democratici e di alcuni repubblicani moderati, che chiedevano di escludere il provvedimento della trivellazione dalla legge di bilancio in cui era stato inserito dal partito di Bush – proprio con l’intenzione di evitare manovre ostruzionistiche da parte dell’opposizione. Rispetto a simili iniziative respinte dal Congresso sotto Clinton e durante il primo mandato di Bush, sono stati decisivi i tre seggi senatoriali guadagnati dai repubblicani alle elezioni di novembre. Se la legge di bilancio sarà approvata dal Congresso entro la fine dell’anno, per vedere le prime trivellazioni esplorative sarà solo una questione di mesi.
Un ecosistema delicato.L’Arctic National Wildlife Refuge, diventato territorio protetto per merito del presidente Eisenhower nel 1960, si estende su oltre 76mila chilometri quadrati, un quarto della superficie dell’Italia, ed è l’habitat naturale per gli orsi polari, i caribù e milioni di uccelli migratori. La zona interessata dalle trivellazioni sarà in realtà solo un’area costiera di circa 5mila kmq, grande quanto la Liguria, ma gli ambientalisti temono che l’arrivo dell’industria petrolifera potrebbe sconvolgere un ecosistema già di per sé delicato.
Una lotta lunga due decenni. E’ dall’inizio degli anni Ottanta che l’industria petrolifera cerca di avere accesso al sottosuolo del Parco Nazionale, che si stima contenga più di 10 miliardi di barili di greggio. Dato che gli Stati Uniti importano (dal Medio Oriente) quasi il 60 per cento dei 20 milioni barili che consumano al giorno, in tempi di guerra al terrorismo l’apertura alla trivellazione del Parco Nazionale Artico è diventata parte della strategia di sicurezza nazionale. Senza contare che disporre di più petrolio pescato nel sottosuolo americano, in previsione di prezzi del petrolio in media più alti di alcuni anni fa, farebbe molto comodo alle casse di Washington.
Serve davvero?Molti critici credono comunque che il gioco non valga la candela. Oltre ai temuti danni all’ecosistema, bisogna considerare che la quantità di petrolio presente in Alaska non è poi così grande: se gli Usa da domani consumassero solo il greggio del Parco Nazionale Artico, quei 10 miliardi di barili basterebbero per neanche un anno e mezzo. Al picco della produzione, che non sarà comunque raggiunto prima di 25-30 anni, da lì uscirà al massimo un milione di barili al giorno. Sono comunque discorsi che varranno in un futuro neanche troppo vicino: prima del 2010, concordano gli esperti, dall’Alaska non uscirà una goccia di petrolio. Almeno per altri cinque anni, quel territorio rimarrà incontaminato.
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