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Il settore pubblico italiano sostenuto dalla produzione per l'apparato militare USA

Il caso Finmeccanica che , invece di essere privatizzata, continua ad espandersi con acquisizioni, e allargamento del mercato nel settore militare
26 maggio 2004
Fonte: Il Manifesto

Altro che addio alle armi. Nomi e cifre del business Italia-Usa
Le modifiche intervenute negli ultimi tre anni nel settore pubblico della difesa - che hanno visto la svolta italiana verso l'apparato militare-industriale americano - sono considerevoli. Unico caso da anni, il settore pubblico - attraverso la Finmeccanica - ha acquisto alcune industrie private: Marconi Mobile, Fiat Avio, Telespazio, Aermacchi. Allo stesso tempo è cambiata abbastanza la geografia delle società. Aeronautica. Nel settore la Finmeccanica ha poco più di 9.000 addetti e tre società: Alenia Aeronautica, Aermacchi (nel 2003 la quota Finmeccanica in questa società, che fa velivoli da addestramento, è salita al 92%, avendo acquisito il 66,6% per 160 milioni di euro) e le Officine Aeronavali (revisione e trasformazione aeromobili).

Spazio. Cinque le società in questo settore: Alenia Spazio, telespazio, Laben, Space Software Italia, Quadrics. Circa 4.000 i dipendenti.

Elicotteri. Settore di nicchia nel quale la produzione italiana è sempre stata molto competitiva, attualmente affidato alla joint-venture Agusta-Westland, che ha 4.500 dipendenti in Italia e altrettanti in Gran Bretagna. L'Agusta sarebbe in procinto di acquisire il tutto.

Elettronica per la difesa. Negli ultimi anni dentro la Galileo Avionica sono confluiti la Fiar (sistemi radar e missilistici, apparati elettronici) e la Meteor (velivoli telecomandati). Con l'aqcuisizione della Marconi Mobile Holdings nel 2002 è nata la Marconi Selenia Communications, che va ad affiancare la Alenia Marconi Systems, joint-venture con gli inglesi di BaeSystems (dai radar ai sistemi di comando, dal controllo aereo alle reti integrate). Oltre 11.000 addetti.

Sistemi di difesa. Qui arriviamo alla guerra-guerra: sistemi di arma terrestri, navali e aeronautici (Oto Melara), siluri e sistemi d'arma sottomarini (Wass), partecipazione alla Mbda (in joint-venture con l'inglese Bae e la Eads).

Fiat Avio. Della alleanza con Carlyle per rilevare dalla Fiat il settore aerospaziale c'è scarsa traccia nei documenti ufficiali. Certo è che Finmeccanica ha il 30%, mentre il fondo d'investimento americano - che ha nel board il clan Bush e gestisce tra gli altri il patrimonio della famiglia di Osama bin Laden - precisa qualcosa nel suo sito. In particolare, scrive che Finmeccanica «come partner industriale» avrà un posto nel board e avrà diritti di voto «in accordo alla corporate governance». In ogni caso «sarà coinvolta» nelle decisioni sulla strategia. Bontà loro.
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In che mani sta l'industria che va
ROBERTA CARLINI
Non ci resta che la guerra. A conclusione del nostro viaggio tra fatti e misfatti delle privatizzazioni, parliamo del settore che va «bene», cioè che fattura, cresce, fa alleanze internazionali, non vende anzi compra, resta sotto controllo pubblico ma con grande spregiudicatezza e flessibilità: in una parola, del militare a partecipazione statale. Ossia della Finmeccanica, che proprio oggi «celebra» nella sua assemblea le due svolte del terzo millennio: concentrazione sul «core business» aerospaziale e militare, sterzata brusca verso le alleanze con gli Stati uniti e la Gran Bretagna. Si attendono annunci, si saprà forse qualcosa di più del progetto che - logica conseguenza della scelta degli armamenti - punta a separare, impacchettandole in un'altra società che si potrebbe chiamare «Finmeccanica 2», le produzioni «civili». Con il suo 32,3%, il ministero dell'economia e delle finanze controlla la Finmeccanica, che raccoglie più o meno tutto quel che resta dell'industria pubblica. Come padrone, dicono che Giulio Tremonti sia più assenteista di un nobile latifondista russo dell'800. Molto interessato alle uova-dividendi delle «galline grasse» (Enel e Eni), affezionato alle nuove creature (tipo Patrimonio Spa), poco interventista sui settori produttivi e industriali. Più sensibile al tema - soprattutto in fatto di nomine - il suo rivale dalla (mai varata) cabina di regia economica, Gianfranco Fini, che ha nel partito un «vecchio» delle partecipazioni statali come Pietro Armani. Con l'attuale presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini, Fini vanta un buon rapporto, al punto che - dicono in ambienti delle ex Ppss - è stato lui a convincerlo a mollare l'adorata Fincantieri per passare alla Finmeccanica. Gli stessi ambienti però precisano che Guarguaglini vanta altri poderosi rapporti nelle forze armate e nei servizi, oltre che una profonda conoscenza delle «sue» industrie: insomma, non è che avesse bisogno del «cappello» di Fini per far carriera.

Fatto sta che l'ha fatta, e ha idee chiare sul come proseguirla. Le ha illustrate venerdì scorso in un articolo sul Sole 24 Ore. «Oggi Finmeccanica fattura 8,6 miliardi di euro, di cui 6,4 nel settore aerospazio e difesa. Questa cifra era pari a 4 miliardi due anni fa e vogliamo portarla a 10 nell'arco dei prossimi 3 anni», ha scritto, elencando gli investimenti fatti, vantando grosse collaborazioni con università americane e lamentando il fatto che in Italia «in alcuni casi le collaborazioni con il mondo accademico vengano precluse perché certi atenei adottano il titolo di università cosiddetta etica». Il rifiuto di collaborare con aziende armate viene definito da Guarguaglini una «discutibile moda in voga anche tra gli istituti di credito».

Ma sui sistemi di «difesa» torneremo. Quanto alle attività di energia e trasporti, Guarguaglini annuncia un «deconsolidamento». Termine un po' criptico che si può tradurre così: intanto le mettiamo fuori, poi si vedrà. Una conferma dell'ipotesi che va avanti da anni: di qua tutto il militare, di là tutto il civile. Un progetto nato nel mondo manageriale - anche per far fronte a una nuova suddivisione di posti e poteri, con l'attuale presidente di Fincantieri, Giuseppe Bono, destinato a «Finmeccanica 2» -, ispirato dalle regole europee che consentono presenza pubblica e aiuti di stato solo laddove ci sia un interesse strategico nazionale e che i nostri interpretano così: sul militare nessuno ci viene a rompere le scatole. Ma su cosa sia «di qua» e cosa sia «di là», si arrovellano e si scontrano manager, politici, sindacati. Gli esempi di compresenza civile/militare sono molti: lo spazio - settore nel quale Finmeccanica ha acquisito nel 2002 dal gruppo Olivetti Telespazio -, gli stessi cantieri navali (la Fincantieri, destinata a Finmeccanica I, ne ha tre militari), gli aerei (Alenia Aeronautica ha tutte e due le produzioni) e gli elicotteri. Dove sarà tracciata la linea? Qualcuno, nel segreto degli ambienti managerial-militari, dice: tra quello che si vuole vendere e quello che non si vuole o non si può vendere. Altri, più attenti alle questioni di potere, dicono che l'equilibrio si troverà alla fine di una contrattazione tra i manager designati. Un antico presidente di una società delle Ppss - di quelli della «prima repubblica», con tutti i processi connessi, oggi un po' vecchio saggio un po' superconsulente - ci ha confessato: «Finmeccanica 2? Proprio non la capisco».

Una cosa è chiara: di Finmeccanica I si conoscono strategie e alleanze, della nebulosa destinata alla serie B non si sa niente. Tutte le principali novità, investimenti e acquisizioni degli ultimi anni sono riconducibili al militare-aerospazio, e quest'ultimo sempre nel settore guerresco. Quasi tutte riguardano accordi con gli ambienti industriali e militari dell'alleato, Usa e Gran Bretagna. Il colpo grosso - l'ultimo - è stato rivelato la scorsa settimana da Gkn, la società inglese che controlla Westland che a sua volta è al 50% in joint venture con l'Agusta dal 2001: l'Agusta sta per comprarsi la Westland. «Piccoli italiani crescono», è il caso di dire. Pochi giorni dopo, l'Agusta è salita di nuovo agli onori delle cronache per l'indiscrezione, uscita da ambienti militari, secondo la quale sarebbe imminente l'invio in Iraq dei «Mangusta», elicotteri d'attacco della casa. L'Agusta-Westland fa più elicotteri civili che militari, ma trae da questi ultimi - più grandi e infinitamente più costosi - i due terzi del fatturato. Le produzioni convergono fino a un certo punto, l'elicotterino civile nella fase finale deve essere personalizzato, l'altro passa direttamente nei capannoni segreti per la fase dell'armamento. Somigliano sempre di più - ci spiegano invece ambienti della joint-venture - la commercializzazione e l'assistenza al cliente: insomma, uno stato che compra l'elicottero da guerra confronta i prezzi, le condizioni commerciali, la manutenzione, un po' come un Briatore che si fa l'elicottero per andare in Sardegna.

L'alleanza con gli inglesi di Westland è precedente la svolta filoamericana del governo italiano, ma quest'ultima ha influito non poco sui suoi sviluppi. Tra le ambizioni del gruppo c'è quella di aggiudicarsi la gara per la flotta elicotteristica della Casa bianca e sostituire l'attuale «Sikorsky S61»: mentre Sikorsky (United Tecnology) concorre al grido di «comprate americano» (ma fabbrica qua e là per il mondo), l'Agusta-Westland ha promesso di costruire il prodotto interamente negli Usa, sotto la supervisione di Lockheed Martin. Se ne parlerà dopo le elezioni presidenziali: può anche darsi che i buoni uffici di Berlusconi presso Bush si riveleranno inutili se non controproducenti.

Ancora più netta è la svolta filoamericana nel campo aeronautico. Dal 2001 a oggi gli annunci non si contano. I principali: un «memorandum of understanding» tra Alenia Aeronautica, Aeronavali e Boeing per sviluppare l'aereo-cisterna B767 (rifornimento in volo dei veivoli militari); un accordo tra Alenia Marconi System e Boeing per la commercializzaizone delle Smart Munitions; altri due accordi con Boeing per il «Sonic Crusier» e le cabine di pilotaggio; il «memorandum» tra governo italiano e americano sulla costruzione dell'aereo da combattimento di nuova generazione «Joint Stright Fighter»; un accordo tra Alenia Spazio e Boeing per la partecipazione al programma «scudo spaziale»; l'aqcuisizione del 30% di Fiat Avio, insieme agli americani del fondo Carlyle, diretta emanazione dell'amministrazione Bush (v. scheda); e poi, la partecipazione a cordate comuni per avere commesse da stati esteri, come la Grecia. E anche un fallimento, come l'avvio di programmi della «guerra elettronica» con la britannica Bae nella joint-venture Eurosystems, che stava per far saltare qualche poltrona. Parallelamente a tutto ciò, c'è l'uscita dal tavolo principale del consorzio Airbus, militare e civile, per il quale tuttavia le aziende del gruppo Finmeccanica lavorano come sottofornitori.

«Quella militare diventa un'industria di subfornitori degli Stati uniti, ma resta un settore d'eccellenza» chiosa Riccardo Nencini, che dalla Fiom - sindacato che è ben presente nel movimento pacifista - segue il settore dell'industria pubblica. «Non sediamo al tavolo dei prime, come poteva essere con l'Airbus, ma diversifichiamo il rischio, legandoci un po' agli europei un po' agli americani», è il commento di un analista del settore. Confermato dalle parole di Guarguaglini nel già citato articolo: «Non puntiamo a far parte dei grandi prime di sistema, cioè coloro ai quali i governi nazionali chiedono la realizzazione di sistemi integrati di difesa e di sicurezza. Questo ruolo presuppone dimensioni enormi, che oggi solo poche imprese (3 o 4 ed essenzialmente americane) possono vantare». Dal modello italiano degli anni dell'economia mista, al made in Italy del «piccolo è bello», al paese-cacciavite delle armi altrui: che sia anche questo, l'eccellente settore della difesa, un'alttra faccia del «declino italiano»? (4-fine. Le precendenti puntate dell'inchiesta sulle ex-Partecipizioni statali sono uscite l'11, il 15 e il 22 maggio).

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