La guerra in appalto fattura miliardi di dollari
Mercenari o lavoratori come gli altri? Prigionieri o ostaggi? Terroristi o resistenti? Anche lungo queste contese linguistiche si sviluppano le differenti valutazioni sulla situazione in Iraq. Non senza il riemergere insopportabile della parola «eroi» che dovrebbe essere usata solo per chi consapevolmente e volontariamente si sacrifica per un ideale, fino a giocare la propria vita. Quanto alle molteplici aziende che lavorano in Iraq in varie e diversificate funzioni di assistenza e sicurezza, molti giornali hanno fatto un po' di navigazioni sul web, traendo sommarie informazioni, utili ma impressionistiche. Il che conferma due cose: che la rete è una gran fonte di notizie e materiali, ma anche che per leggerle e interpretarle, occorre competenza. Se uno per esempio si mette a cercare gli studi sui funghi velenosi, certo troverà materiali abbondanti, ma solo chi sia già un po' introdotto nella materia sarà in grado di selezionare, estrarre, e infine capire.
È la conferma del ruolo decisivo degli intermediari dei saperi che possono essere il professore di scuola, uno scrittore, un giornalista specializzato. Nello stesso tempo molti di questi esperti hanno delle loro presenze in rete, e a queste «autorità» in materia è utile rivolgersi, almeno in prima battuta, se non altro per accorciare i tempi dell'apprendimento.
In tema di «mercenari» dunque il maggior esperto sembra essere Peter W. Singer, un analista di sicurezza della Brookings Institution. Il suo libro «Corporate Warriors: Rise of the Privatized Military Firms» è probabilmente la ricerca più completa sull'argomento. Ma chi non volesse acquistarlo può leggere un lungo saggio dello stesso Singer sulla rivista solo online Salon magazine (www.salon.com/news/feature/2004/04/16/outsourcing_war/). La guerra in appalto è l'oggetto, e Pmf («private military firms») è il termine tecnico con cui viene designato questo settore della società dei servizi, ignoto ai più. Si tratta, scrive Singer, di centinaia di aziende, migliaia di dipendenti, miliardi di dollari di fatturato. L'altra faccia di quella che gli americani amano chiamare la coalizione dei volonterosi ( «coalition of the willing») è dunque una «coalition of the billing».
Queste aziende operano attualmente in 50 paesi diversi ma il loro più grande cliente è senza dubbio il governo americano che nell'ultimo decennio ha stipulato con loro tremila contratti circa. A loro viene affidata larga parte della catena logistica (che nei campi di battaglia è altrettanto se non più importante della potenza di fuoco) ma anche operazioni strettamente militari, spesso quelle più a rischio. In questo modo il Pentagono sottrae se stesso dall'esposizione verso l'opinione pubblica, i morti non tornano fasciati nella bandiera a stelle e strisce, ma risultano affare privato e nascosto, oltre a tutto sottratto a ogni convenzione o regola d'ingaggio. È lavoro sporco, sì, anzi sporchissimo, non per caso delegato al mercato privato.
Quasi nessuno dei media, per esempio, ha riferito che gli scontri più duri attorni a Najaf, nella difesa degli uffici della Cpa attaccati dalle milizie sciite radicali, vennero sostenuti da armati della Blackwater, la stessa ditta che pochi giorni prima aveva visto uccisi quattro suoi dipendenti in un'imboscata. La battaglia si protrasse per diverse ore e la stessa Blackwater ebbe a mandare per due volte il suo privato elicottero per rifornire di armi le sue truppe. Nella stessa notte altre «aziende», l'Hart Group, la Control Risks e la Triple Canopy, furono impegnate in scontri a fuoco, a difendere posizioni che le truppe ufficiali della coalizione avevano già abbandonato.
Ma L'Iraq non è una novità: il compound di Riyadh, attaccato da terroristi suicidi la primavera scorsa era gestito da personale della Vinnell, di Fairfax in Virginia. I tre americani uccisi nella striscia di Gaza in autunno erano della DynCorp. La nave di mercenari intercettata il mese scorso al largo dello Zimbabwe, avendo come obiettivo un colpo di stato in Guinea Equatoriale, era della Logo Logistics, basata nelle British Virgin Islands. E il presidente di Haiti, in fuga dal suo paese, era scortato da agenti della Steele Foundation di San Francisco. Un mercato globale, insomma, il cui valore stimato è di 100 miliardi di dollari.
La rete è ottima anche per controllare i finanziamenti delle aziende americane ai politici e come più volte segnato in queste pagine sono molti i siti che consentono controlli incrociati. Si impara dunque che nel 2001 le dieci maggiori imprese del settore hanno investito 12 miliardi di dollari in sostegno alle campagne politiche. E si nota anche un fatto singolare, che la famosa Halliburton, oggi titolare dei più grandi appalti in Iraq, destinava il 95 per cento delle sue donazioni ai repubblicani. Più precisamente investiva 1,2 miliardi di dollari negli ultimi due anni dell'amministrazione Clinton, ma quella somma si è dimezzata con il cambio di amministrazione. Il motivo è facile immaginarlo: essendo il suo precedente capo, Dick Cheney, divenuto vice presidente degli Stati Uniti, non c'è più bisogno di spendere tanto.
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Repubblica