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La rinascita del privateering: lo Stato e il nuovo mercato della guerra

25 aprile 2004
Angelo D'Orsi
Fonte: Mailing List Banche Armate - 19 aprile 2004

Premessa

Gli storici e, molto più raramente a dire il vero, gli scienziati sociali si sono a volte cimentati nell’impresa di ricostruire l’evoluzione della guerra nei secoli. Si pensi ai testi di storia della strategia e della tattica, dall’età antica ai giorni nostri, o a quelli dedicati all’innovazione tecnologica nel campo degli armamenti, dall’introduzione delle prime armi da getto, all’invenzione della polvere da sparo per arrivare fino alle odierne armi di distruzione di massa (provocatoriamente definite oggi persino intelligenti, fingendo di ignorare che è pur sempre l’uomo, com’è noto soggetto a errori, a puntarle). Assumere tuttavia che la storia della guerra sia determinata in buona misura dalla capacità di innovazione tecnologica, per cui chi si avvantaggia di una scoperta ad uso bellico acquisirebbe la superiorità militare, più che semplicemente fuorviante è addirittura falso: la sconfitta subita dagli Stati Uniti d’America in Vietnam ne è soltanto uno degli esempi più lampanti. Certamente più significativo sarebbe analizzare la componente sociale delle guerre, aspetto invece incredibilmente più trascurato. Ci si accorgerebbe allora che la storia della guerra è stata un continuo alternarsi di episodi in cui prevalevano formazioni d’élite ben armate e addestrate, sulla carta dotate di un’elevata capacità di manovra, dalla cavalleria all’aviazione; ad altre nelle quali ad affermarsi sui campi di battaglia erano masse di uomini con armi talvolta persino rudimentali che sfruttavano la propria forza di impatto o, al contrario, il fattore sorpresa. I quadrati di picchieri svizzeri o i tercios spagnoli non costituivano in origine che la risposta (la difesa), a lungo vincente, dei contadini nei confronti della cavalleria pesantemente armata della nobiltà feudale (l’unica classe in grado di permettersi il lusso di cavalli e armatura). Così come a partire da fine Ottocento la guerriglia combattuta da formazioni irregolari e male armate ha rappresentato il migliore strumento nelle mani dei deboli costretti a difendersi dai forti, strategia pressoché obbligata nelle guerre partigiane e di liberazione. In termini strategici, e però fortemente riduttivi, non è altro che l’eterno dibattito tra chi sostiene la superiorità e/o la necessità della fanteria, e quindi dello scontro frontale sul terreno, ai fini della vittoria in guerra e chi invece ritiene conti maggiormente, e basti, la potenza di fuoco e quindi, oggi, soprattutto l’arma aerea con il suo prolungamento missilistico: il dilemma, come si ricorderà, riproposto ancora ai tempi della guerra del Golfo o dell’intervento in Kossovo.

A ben vedere, invece, l’esistenza di due vere e proprie "ideologie" contrapposte era implicita fin dalle origini nella stessa etimologia dei lemmi adottati per definire la guerra: il bellum latino evocava infatti il duellum, la guerra come strumento di dominio imperiale; mentre il polemos greco rinviava alla polis, cioè alla difesa collettiva come a uno dei requisiti della cittadinanza stessa. Ciò che non sfuggiva agli antichi, ovvero che la guerra ha a che fare con la politica e con la lotta per il potere, è stato gradualmente rimosso dai moderni – nonostante ci avesse pensato Clausewitz a ricordare che la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi – per arrivare a rivendicare ad essa un carattere infine "naturale" di manifestazione dell’aggressività umana o della inalienabile sovranità dello stato, comunque in entrambi i casi ineludibile e ineliminabile. La Sarajevo assediata della guerra di Bosnia del 1992-95, non meno della Sarajevo dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914, starebbero a dimostrare che gli eventi bellici trascendono la volontà dei singoli, siano essi i potenti di turno o le vittime designate, e che posseggono dinamiche e automatismi propri di cui, quindi, tanto varrebbe non cercare neppure i responsabili.

Eppure, da un’analisi storico-comparata delle guerre è facile inferire che ogni formazione politica – dal Cinquecento in poi, soprattutto lo stato moderno europeo – si è razionalmente dotata dell’apparato militare che riteneva più idoneo a raggiungere i propri obiettivi di grande-medio-piccola potenza, tenendo sempre nel dovuto conto i costi sociali dell’impresa (Tilly 1991, Armao 1994). Non è un caso, insomma, che lo stato patrimoniale non abbia mai fatto ricorso alla leva in massa che costituisce, al contrario, uno dei traguardi più significativi della rivoluzione francese. E non solo: è anche dimostrato che regimi democratici e totalitari manifestano una differente propensione alla guerra, così come diverse sono le loro prestazioni (Bonanate 1998). Ma non è esattamente questo il punto che si vuole affrontare e per chiarire il quale, invece, può rivelarsi di maggior aiuto affrontare la storia di lungo periodo delle guerre a partire dalla dicotomia privato/pubblico.

1. La guerra e il processo di monopolizzazione

Il "privato" definisce tradizionalmente l’ambito della società domestica e del mercato, il "pubblico" l’ambito di competenza della politica, e quindi per noi dello stato. Il privato è regolato dal contratto, ovvero da una norma basata essenzialmente sul principio di reciprocità del do ut des; il pubblico dalla legge, da una norma vincolante dettata dal sovrano e la cui effettività è rafforzata dal potere di coazione (Bobbio 1985). Si è più volte analizzato il rapporto tra le due sfere in termini di primato dell’una sull’altra, di privatizzazione del pubblico e di pubblicizzazione del privato, per indicare più o meno polemicamente casi di effettiva o presunta invasione dell’altrui dominio. La retorica liberista è infarcita di accuse allo stato di volersi intromettere nella sfera privata del mercato; così come, con qualche argomento in più, di privatizzazione del pubblico parla soprattutto chi accusa la politica di lottizzazione e di pratiche di corruzione che travalicano i limiti della corretta rappresentanza degli interessi di singoli gruppi. Ma, ciò che qui più rileva, è che l’intera vicenda dello stato moderno può essere ricostruita come un processo di monopolizzazione contraddistinto da due principali fasi: la prima, quella della formazione dei monopoli, caratterizzata dall’accumulazione delle risorse nelle mani di poche e infine di una sola autorità; la seconda, quella della redistribuzione delle risorse, in cui il sovrano avvia la trasformazione del proprio potere da privato a pubblico appunto, assumendo perciò la funzione di ripartire le chance, se si vuole diritti e obblighi, tra gruppi sociali sempre più estesi, senza mai rinunciare però al monopolio del dominio (Elias 1988).

In estrema sintesi, le conseguenze sulla conduzione delle guerre di questo processo – graduale e non privo di eccezioni (si pensi ai comuni medievali), di improvvise accelerazioni (il New Model Army della dittatura cromwelliana) e di altrettanto subitanei ripensamenti (la "controriforma" prussiana successiva alle vittorie su Napoleone) – possono essere riassunte in due linee di tendenza, riguardanti la prima la truppa e la seconda il corpo ufficiali. Superata la fase feudale nella quale il cavaliere è, in realtà, poco più che un ufficiale di se stesso, uno specialista addestrato fin dall’infanzia all’uso delle armi e ricompensato con la concessione di un feudo, vincolato dall’obbligo di fedeltà al proprio diretto concedente e non al re, a sua volta ancora considerato il primus inter pares di una moltitudine di poteri confederati, l’esercito risulterà a lungo composto per lo più da mercenari. Il "nuovo" sovrano, proprio per emanciparsi dai vincoli di vassallaggio e affermare definitivamente la propria superiorità sui potentati locali, recluta reparti organizzati da veri e propri imprenditori militari che anticipano il capitale necessario ad armare e addestrare i combattenti. Forte delle disponibilità finanziarie create dalla costituzione di un tesoro centrale, il monarca trasforma la guerra da evento prevalentemente ancora a carattere interno (di conflitto per la supremazia tra potentati locali) a evento internazionale: la discesa di Carlo VIII di Francia in Italia nel 1494 viene solitamente vista come l’impresa che segna questo salto di qualità (Bonanate, Armao, Tuccari 1997). Dopo di allora, si cercherà di ovviare ad alcuni dei maggiori difetti di queste formazioni, quali la scarsa fedeltà in battaglia e la propensione a vivere del saccheggio del territorio una volta esaurito il soldo, trasformando i mercenari in eserciti permanenti: già Carlo V crea nelle provincie del suo vasto impero dei presìdi che diventano vere e proprie scuole militari per i soldati spagnoli. Ma l’impresa è costosa, e il ritorno al mercenariato una necessità imposta dalle frequenti bancarotte del governo centrale.

Successivamente, con il rafforzarsi dello stato patrimoniale, l’esercito permanente tenderà a istituzionalizzarsi attraverso l’introduzione di forme di coscrizione a lunga ferma, più o meno efficaci a seconda dei paesi, che consentiranno anche la costituzione delle prime milizie territoriali. Nonostante ciò, tuttavia, i reggimenti del Re Sole risultano ancora composti per lo più da volontari il cui reclutamento alimenta corruzione e speculazione, facendo sì che i colonnelli inseriscano nei ruolini d’adunata soldati che non verranno in realtà mai schierati sui campi di battaglia. E persino le mitiche armate federiciane, fondate sull’obbligo del servizio militare per contadini e artigiani cui un complesso sistema di esenzioni e di permessi consente però di pagarsi un sostituto, col tempo si vedranno costrette a fare sempre maggior ricorso al reclutamento di mercenari stranieri, vanificando l’impiego delle sofisticate tattiche che avevano fatto la fortuna di Federico il Grande e costringendo infine la Prussia ad accontentarsi di guerre limitate per la difesa delle posizioni di confine. Perché questo primo percorso trovi il proprio compimento nella costituzione di un esercito davvero nazionale, prefigurato a dire il vero da Gustavo Adolfo di Svezia ai tempi della guerra dei Trent’anni, bisognerà attendere la leva in massa di Valmy nel 1792. Combattere per il proprio paese in armi può adesso diventare un obbligo universale, ma soltanto perché al popolo sono stati concessi quei diritti di partecipazione alla vita pubblica che fino a quel momento gli erano stati negati. Il "privilegio" di poter morire al fronte diventa l’espediente retorico di cui si nutriranno le guerre mondiali del Novecento, in un crescendo di violenza che ha segnato l’apice di questa evoluzione; ma costituisce d’altra parte effettivamente la massima espressione possibile della pubblicizzazione della violenza, cioè della sua sottrazione agli interessi di singoli attori privati: le guerre combattute da cittadini in armi godono di una legittimazione superiore a qualunque conflitto tra mercenari; e tra le guerre di popolo ancor più (politicamente) giustificate sono quelle combattute dagli appartenenti a uno stato democratico, per il fatto di essere liberi di concedere o negare il proprio consenso ai governanti.

Anche per quanto riguarda i membri del corpo ufficiali si assiste nei secoli al tentativo dello stato di sottrarli al dominio privato del contratto per assoggettarli a una legge pubblica. Se nel Medioevo il capo guerriero si identifica tout court con l’autorità politica, nel processo di costituzione dello stato moderno questi due ruoli vengono sempre meglio distinti, passando attraverso una fase di fedeltà alla persona del sovrano, per giungere infine alla fedeltà nei confronti delle istituzioni. Storicamente, poi, si avverte il passaggio da un’appartenenza prevalentemente di classe, determinata cioè su una base prettamente economica, a un’appartenenza di ceto, basata su una peculiare valutazione sociale dell’onore (Weber 1981). Più precisamente si passa da una fase in cui classe e ceto chiaramente coincidono, ad una nella quale i due criteri di appartenenza tendono a distinguersi e finisce per prevalere la classe di appartenenza, ad una infine nella quale la struttura assume valenza chiaramente cetuale. Inizialmente, infatti, l’arte del comando è associata alla capacità economica di acquistare le armi, che pertiene agli appartenenti alla nobiltà feudale. Successivamente, il graduale impoverimento di tale nobiltà produrrà il fenomeno della cosiddetta vendita dei brevetti, che sarà lo strumento cui i sovrani ricorreranno per alimentare le stremate casse dello stato e al tempo stesso per ottenere un certo riequilibrio fra le forze sociali, aprendo così il corpo alla ricca borghesia, la sola a potersi permettere l’acquisto di una carica e, insieme ad essa, di un titolo nobiliare. In questa fase, a testimonianza dello scollamento tra classe e ceto, la rivendicazione di un preteso diritto a continuare a far parte del corpo ufficiali sulla base della condivisione di un innato senso dell’onore sarà la risposta propria degli aristocratici defraudati. La composizione di tale contrasto avverrà, infine, su un piano ulteriore: il nuovo ceto degli ufficiali legherà il proprio onore all’idea di professionalità sviluppata all’interno delle Accademie militari. La cosiddetta professional revolution (Huntington 1957), ovvero la trasformazione del corpo ufficiali in un’organizzazione di professionisti, rappresenta inizialmente il necessario contraltare della democratizzazione degli eserciti e dell’apertura degli accessi alla carriera militare; ma acquista una propria autonomia già all’indomani delle guerre napoleoniche, con il sostanziale rigetto dell’idea di nazione in armi da parte delle maggiori potenze conservatrici dell’epoca. Da quel momento il professionismo militare risulterà sempre più associato a variabili in buona misura analoghe a quelle delle burocrazie civili: lo spirito di gruppo e la competitività intragruppo, la competenza quale criterio di selezione e avanzamento, l’aderenza ai valori e all’ideologia del proprio governo (Perlmutter 1977).

2. Lo spazio residuale della violenza privata

Quanto sin qui raccontato, tuttavia, non esaurisce il discorso sulle forme della violenza. A questa sorta di storia "autorizzata" del processo di monopolizzazione della forza nello stato moderno, infatti, bisognerebbe affiancarne un’altra non meno nota, eppure più clandestina, riguardante gli ambiti di gestione della violenza che quello stesso stato ha continuato a subappaltare ad attori privati, cercando di trarre il maggior vantaggio possibile dall’equivoco che inevitabilmente veniva a crearsi: se cioè quei privati agissero per proprio conto, quindi illegalmente, o viceversa su delega del potere sovrano. Privateer veniva definita la nave corsara e privateering la pratica con cui il sovrano autorizzava vascelli armati di proprietà privata ad attaccare il naviglio nemico in tempo di guerra, trattenendo per sé una parte del bottino (Thomson 1994). Tra guerra di corsa e pirateria il confine era molto labile, sia perché poteva capitare che il privato decidesse arbitrariamente di ampliare i termini del proprio mandato, sia perché lo stato poteva trovare utile ritirare improvvisamente la propria delega qualora ciò gli servisse per occultare al nemico le proprie responsabilità. Questa forma irregolare di conflitto, a ben vedere, non era ancora così differente dal più tradizionale mercenariato e contribuiva semmai ad arricchire di nuove e fantasiose maschere un repertorio già abbastanza ricco di personaggi che avevano fatto la propria (e altrui) fortuna grazie all’abilità nel servirsi della violenza per determinare la distribuzione di risorse scarse (Lane 1979).

A un ben altro livello, in termini sia organizzativi che di potere, si ponevano invece le compagnie commerciali privilegiate (si pensi alla East India Company inglese o alla Vereenigde Oostindische Compagnie olandese), società per azioni in grado di gestire in piena autonomia i traffici oltremare grazie alla capacità di garantirsi privatamente la protezione delle proprie rotte e dei propri insediamenti. Così facendo, non soltanto esse ottenevano l’effetto di ridurre la protezione da rischio imponderabile a costo razionale d’impresa, ma si mettevano nelle condizioni di produrre un surplus di violenza – una vera e propria "rendita di protezione" – da immettere utilmente sul mercato e da cui ricavare ulteriori profitti. Le compagnie nascevano per concessione dello stato e forti delle proprie capacità coercitive conquistavano e colonizzavano ampie zone del globo. Si nutrivano della propria trasversalità di attori politici ed economici, statali e non statali, per accumulare risorse da spendere anche all’interno, arrivando in alcuni casi ad agire come uno staat buiten die staat (uno stato indipendente dallo stato). E fu proprio questa loro natura intrinsecamente competitiva nei confronti dei governi a determinarne infine la soppressione.

È curioso però un fatto: proprio quando sembrava che gli stati, ormai nazionali, dovessero assumersi appieno le proprie responsabilità negando ad attori privati la "licenza di uccidere", e questo oltre tutto con strumenti giuridici (criminalizzando la violenza non statale nelle sue molteplici manifestazioni) e non ricorrendo alla mera repressione, si aprì un nuovo fronte che avrebbe nuovamente messo a repentaglio la loro effettiva capacità di qualificarsi come detentori del monopolio legittimo della forza armata. Ci si riferisce alla crescente industrializzazione della guerra che, a partire dalla corsa al riarmo navale di Germania e Gran Bretagna negli anni ottanta del XIX secolo, alterò profondamente le dinamiche tra economia e politica. Lo stato, che fino ad allora aveva affidato ai propri arsenali la produzione degli armamenti, fu costretto a rivolgersi al mercato privato perché non disponeva di capitali di investimento adeguati a coprire le spese crescenti imposte anche dai proibitivi ritmi di innovazione tecnologica (McNeill 1984). La perdita del controllo della produzione implicò, tra le altre cose, una crescente confusione dei ruoli e degli interessi pubblici e privati che si concretizzò, non a caso, nel dilagare dei fenomeni di corruzione politica; nonché la nascita di un’economia transnazionale che generò due fenomeni: da un lato, la propensione delle principali industrie di armamenti (Armstrong e Vickers in Inghilterra, Krupp in Germania, Schneider-Creusot in Francia) a rispondere all’aumento dei costi di produzione attraverso il meccanismo delle fusioni, che fece sì che si trasformassero in breve tempo in burocrazie in grado di contrattare su basi di relativa parità con gli agenti dei governi; dall’altro, l’adozione di economie di scala tali da rendere indispensabile lo sbocco su sempre nuovi mercati e da giustificare accordi internazionali collusivi con i principali concorrenti, relativi ad esempio allo scambio di brevetti. Paradossalmente, quindi, il raggiungimento del massimo grado ipotizzabile di partecipazione pubblica all’evento bellico veniva a coincidere con il trionfo della logica privatistica di mercato nel campo della produzione degli armamenti, una contraddizione in termini che da allora ha suscitato non pochi dubbi sulla reale capacità dei politici di garantire che le loro guerre non finissero fuori controllo.

3. Ritorno al futuro: mercenari, terroristi e mafiosi

Se la guerra è davvero prosecuzione della politica, al punto che ogni tipo di stato sviluppa una propria peculiare concezione del monopolio della forza (il che vuol dire anche differenti tipologie di eserciti e di strategie), e se tale peculiarità può essere interpretata in termini di combinazione originale di risorse (e prima ancora logiche) pubbliche e private, allora resta ancora da chiedersi come oggi si manifesti la competizione tra queste due sfere ed eventualmente se l’una stia prevalendo sull’altra.

In prima battuta potremmo dire che la mutazione del sistema internazionale verificatasi nel 1989, con la fine sostanzialmente pacifica del bipolarismo e della Guerra fredda, sembra aver generato una situazione del tutto nuova in cui lo spazio pubblico tende ad aumentare al livello internazionale mentre, al tempo stesso, si riduce drammaticamente all’interno degli stati, dove valori e leggi della democrazia (per limitarci all’analisi del caso più favorevole) tendono ad essere soppiantati dai disvalori e dall’anarchia del mercato. Ma sono ancora gli stati e non il sistema internazionale a gestire la violenza. E quindi ad un significativo aumento delle istituzioni internazionali e della loro capacità di normazione, nonché alla crescita della loro legittimità testimoniata dall’accettazione sempre più convinta del principio di sussidiarietà, corrisponde una diffusione crescente della violenza, tra gli stati e ancor più al loro interno. Non si tratta, sia ben chiaro, di un mero ritorno ad una fase di competizione feudale: non è vero nei fatti, perché il mondo non è mai stato così gerarchizzato; e non ha senso in teoria, perché imbrigliare la storia nella sterile monotonia dei cicli vuol dire impedire aprioristicamente la possibilità stessa di una reale e utile comparazione tra epoche diverse (Goldstein 1988). Semmai volessimo cercare sostegno (e non necessariamente conforto) in una filosofia della storia, questa non potrebbe che basarsi piuttosto su un movimento a spirale, che prevede sì delle fasi di ritorno, ma ad un livello diverso e superiore rispetto al passato, quasi esistesse un apprendimento collettivo che impedisce di ripercorrere esattamente le strade già battute.

Potremmo ipotizzare, quindi, che lo stato moderno stia sperimentando una terza e originale fase di sviluppo nel processo di monopolizzazione, nella quale si assiste ad una straordinaria rivalutazione della distribuzione privatistica delle chance di cui, tuttavia, non è più plausibile beneficino soltanto le ristrette élites dei cortigiani, ma che deve raggiungere un numero molto più elevato di persone. Uno stato ancora formalmente democratico può così arrivare a celare una realtà più prosaica di cittadini retrocessi a sudditi da una politica dominata dalla confusione dei ruoli e dall’accentramento di risorse economiche e politiche nelle stesse mani, che rielabora il linguaggio demagogico del plebiscitarismo per controllare le masse, strutturando al tempo stesso il proprio consenso attraverso lo sviluppo senza precedenti di reti clientelari. Uno stato simile non è più in alcun modo compatibile con il mantenimento di una nazione in armi e quindi tenderà innanzi tutto a sostituire il coscritto con il professionista: è un fatto che meriterebbe più attenzione la facilità con la quale anche quei paesi che fino a un recente passato avevano esaltato la leva in massa come scuola di valori democratici e di amor patrio, abbiano potuto repentinamente abbandonarla in assenza di qualsiasi dibattito pubblico giustificando la scelta con ragioni tecniche e di efficienza – ed estendendo, in sostanza, anche alla truppa quella professional revolution che inizialmente aveva riguardato soltanto il corpo ufficiali.

Ma anche il mercenario è sempre più "professionista" e sempre meno semplice soldato di ventura: in una logica di mercato che investe in misura crescente la dimensione umana della guerra oltre a quella industriale della produzione degli armamenti gli eserciti privati vengono oggi gestiti da efficienti multinazionali (evocativamente definite Private Military Companies) quotate in borsa e pubblicizzate su Internet. A complicare il quadro contribuisce il fatto che tali attori privati della violenza sono di nuovo al servizio anche dei governi che, come nel passato, possono trovare più economico subappaltare certi "servizi" e politicamente conveniente non comparire ufficialmente. E se nell’Ottocento per la sconfitta del privateering era stato determinante lo stimolo della comunità internazionale, oggi può capitare di leggere che persino le Nazioni Unite potrebbero non opporsi all’impiego di eserciti privati per lo svolgimento di mansioni di peace-keeping e di peace-enforcing. Dal momento che anche per il professionista al servizio dello stato l’accento viene sempre più posto sull’adeguamento della retribuzione alle sue reali competenze e alla difficoltà del suo lavoro, quali saranno ancora le differenze tra i due attori? Certamente, quanto più lo stato tenderà a trasformarsi in holding, tanto più la distinguibilità rimarrà affidata a fattori difficilmente ponderabili quali le motivazioni profonde del singolo combattente, la forza dello spirito di gruppo, ma ancora di più la capacità di anteporre la fedeltà alle istituzioni alla cieca ubbidienza agli ordini superiori (militari o politici che siano).

Non è questa, tuttavia, l’unica conseguenza del processo di privatizzazione della politica. La riduzione degli spazi pubblici contribuisce a ridisegnare il confine tra lecito e illecito, rendendo improvvisamente più competitivi attori fino a ieri decisamente marginali. Il riferimento d’obbligo, perché ormai dettato dalle cronache quotidiane, è ai gruppi terroristici (Bonanate 2001) e alle mafie (Armao 2000), che si dimostrano capaci di conciliare la dimensione locale con quella globale meglio di quanto non riescano a fare gli stati: nel loro modo distorto e paranoico, si fanno portavoce delle periferie del mondo dinanzi al consesso dei grandi, piegando la globalizzazione alle proprie esigenze. Incarnano i due volti di uno stesso problema, tant’è che anche sul piano empirico diventa sempre più difficile tracciare un confine netto tra terroristi e mafiosi, se soltanto si considera che i primi fanno sempre più affidamento sul traffico di droga e delle armi per finanziarsi, mentre i secondi non disdegnano affatto la tattica dello stragismo. Certo, permangono ancora delle differenze anche significative; ad esempio, proprio per quanto riguarda la funzione riservata alla violenza, più tipicamente strumentale nel caso delle mafie, maggiormente finalizzata alla realizzazione di un progetto sovversivo (interno e/o internazionale) nel caso delle organizzazioni terroristiche. Ma le analogie tra terrorismo e mafia vanno oltre la semplice contiguità di fatto: entrambe le organizzazioni, ad esempio, condividono la natura di poteri occulti, in quanto tali antitetiche alla democrazia; entrambe tendono a strutturarsi come organizzazioni al tempo stesso gerarchiche e per cellule autonome, costituendo dei network facilmente adattabili alle esigenze del momento e relativamente impermeabili alle investigazioni; entrambe sviluppano relazioni di connivenza tanto con il sistema politico quanto con quello economico, le prime necessarie a rafforzare le rispettive pretese di dominio su di un territorio (ed è questa la dimensione più tipicamente locale), le seconde a garantire i profitti e il proprio rifinanziamento (la dimensione globale). Strutture così simili sono inevitabilmente destinate a incontrarsi e a cooperare in un mondo, in una prospettiva criminale, sempre più globalizzato. Perché ciò non accada, non ci si può certo accontentare di esorcizzare il problema proclamando nuove guerre totali o elevando nuove frontiere tra nord e sud del pianeta nella speranza di accrescere gli standard di sicurezza. Gli stati devono fare un passo avanti. Ritornando alla democrazia.
[ora in: Le guerre del XXI secolo, a cura di Angelo d’Orsi, Carocci, Roma 2003]

Note: Bibliografia

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