Disarmo

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Disarmo: storia del concetto

- Arama, violenza, nonviolenza
- Nelle culture antiche, moderne, contenporanee
- Chi disarma chi? Disarmo come, quando, quanto, quale?
- Transarmo
- Guerra privatizzata
24 marzo 2006
Enrico Peyretti (Enrico Peyretti - Ha insegnato nei licei storia e filosofia; è ricercatore per la pace nel Centro Studi)
Fonte: Intervento nel seminario “Historia Magistra”
Dipartimento Studi Politici, Università di Torino, 10 febbraio 2005

“Disarmo: storia del concetto”
Enrico Peyretti
Intervento nel seminario “Historia Magistra”
Dipartimento Studi Politici, Università di Torino, 10 febbraio 2005
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Indice

I – Dis/armo - non/violenza
Arma – violenza – nonviolenza; Distinzione tra forza e violenza; Arma come forza e arma come violenza

II – Disarmo morale e disarmo materiale
Culture antiche, moderne, contemporanee

III – Chi disarma chi?
Disarmo altrui: il vincitore disarma il vinto
Disarmo proprio: degli individui, dello stato

IV - Disarmo come? disarmo quando?

V – Disarmo quanto? quali armi?

VI – Transarmo

VII – La guerra privatizzata, come disarmarla?

VIII – Conclusione

Allegato A – Denuncia del Nuovo Modello di Difesa (1 giugno 2000)
Allegato B – Proposte politiche della cultura nonviolenta
Scheda – Dati sulle armi

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Nel Dizionario di Politica, edizione 2004, manca la voce Disarmo. Manca anche la voce Armi, Armamenti. (Questo mi pare un bene, ma quello un male!). Non c’è neppure la voce Vittoria. La voce Armi, Armamenti, Disarmo si trova nell’Enciclopedia Einaudi, ma Disarmo è solo nel titolo della voce, e niente nel contenuto! Si trova Disarmo, inteso come trattati internazionali, nell’Enciclopedia Europea Garzanti, 1977.

I – Dis/armo - non/violenza
Dis/armo significa non/violenza? Non/violenza vuol dire non/arma ? Sì e no.
Per il sì: a New York, davanti al Palazzo dell’Onu, c’è il monumento di una pistola con la canna annodata, di Reutersward, col titolo “Non-violence”.
L’anti-militarismo, l’anti-armismo (il distintivo che porto, del Movimento Nonviolento, è un fucile spezzato) è una fase infantile, iniziale, ma giusta e necessaria, della nonviolenza, perché ogni arma significa uccidere, che è tutta violenza, nessuna soluzione.
Per il no: “arma” non vuol dire unicamente strumento per uccidere, o minacciare di morte. Significa anche forza, che va concettualmente distinta da violenza.
L’arma è anche morale (forza resistente e costruttiva) e non solo materiale (violenza distruttiva). C’è arma umana e arma disumana.

La forza costruisce, resiste. L’arma umana è la capacità di reggere, patire con forza (non subire, che è collaborazione passiva!)
L’arma nonviolenta è la non-collaborazione, che toglie base al potere ingiusto. C’è anche una “costrizione nonviolenta”, che consiste nel rendere il dominio più costoso della trattativa e del compromesso: è una dissuasione non minacciosa.
Resistere, reggere, è azione più forte che aggredire: «Principalior actus fortitudinis est substinere», (S. Tommaso, Summa Theologica IIa-IIae, q. 123, art. 6): la forza difende, non offende.
Per Gandhi «la sofferenza è l’arma umana», anche per “conquistare” (persuadere) l’avversario. Quindi c’è un’arma nonviolenta.

La violenza è violare (come lo stupro), è infliggere ingiustamente sofferenza, offesa, in più modi: violenza fisica, morale, strutturale, culturale.
L’arma violenta è dis-umana: viola qualcosa di in-violabile nella persona umana. Suoi effetti sono: uccidere, ferire (al nemico sono più costosi i feriti che i morti, da qui l’uso di armi di medio danno); minacciare (Simone Weil, in Iliade, poema della forza: l’arma non solo uccide, ma, quando tiene sotto minaccia, “può” uccidere, e così pietrifica, rende l’uomo ancora vivo una cosa, un «compromesso tra uomo e cadavere»); dominare: così fa l’arma della fame, dell’ignoranza.

Il corpo umano è il primo strumento, che rappresenta tutta l’ambiguità dell’arma.
È forza che solleva: Jean Valjean solleva il carro, da ciò Javert lo riconosce; Luigi Pintor in Servabo (Bollati Boringhieri, 1991, p. 85): «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
È mano che colpisce, strangola, oppure si offre aperta (disarmata) per “salutare” (dare salute), per trattenere dal cadere o affondare: come diciamo «dare una mano»…
La stessa intelligenza è arma quando è “intelligence”, strumento che accompagna guerra e dominio; quando è «ragione armata» (compito della filosofia è «disarmare la ragione armata», scrive Raimon Panikkar ).
Il senso e l’intuizione di qualche verità (nelle convinzioni, nelle fedi) può essere: verità armata (guerre di religione, odio teologico, ideologico) ma anche verità che “dis-arma”, perché dà il senso del cammino, della ricerca, della inadeguatezza continua.
La verità che possiamo conoscere, veramente non ci arma gli uni contro gli altri (come nella storia ha fatto chi arrogantemente ha pensato di tenerla in pugno e di imporla ad altri come verità armata), ma proprio ci "disarma", nel senso che ci rende più miti ed umili, impegnati continuamente ad imparare dall'ascolto reciproco, e a vivere una vita più giusta. La verità, in quanto – poco o tanto - la intravediamo, proprio ci disarma, perché ci impegna ad una vita personale e a relazioni umane più buone e più vere, dunque ci giudica, ci toglie arroganza. La forza della verità non è offensiva, ma consiste nell’agire profondamente su di noi, in quanto la cerchiamo e le siamo fedeli, col sospingerci ad essere più veri, più forti nel resistere al male e nel vivere il bene.


II – Disarmo morale e disarmo materiale
Il concetto di arma è ambivalente, dunque anche il concetto di disarmo: distinguiamo almeno disarmo morale e disarmo materiale.

II-A - disarmo morale
Appare prioritario rispetto al disarmo materiale, perché non è l’arma materiale che colpisce o minaccia, ma chi la impugna: un militare (amico o nemico) è diverso da un poliziotto, da un cacciatore. San Francesco armato mi fa ridere, non mi fa paura.
Eppure!… L’arma materiale è comunque un pericolo e minaccia, per la sola sua esistenza (nella società statunitense, la quantità di armi private è una delle cause della quantità di omicidi).

Ma c’è un’ambiguità anche del disarmo morale: può essere positivo o negativo.
1) È positivo se nell’animo depongo l’atteggiamento aggressivo, violento, e mi dispongo a deporre strumenti violenti, e sviluppo il coraggio e la razionalità nei conflitti.
Questo atteggiamento è espresso nella Regola d’oro, norma etica universale (ne ho raccolte 25 formulazioni, da tante religioni, culture, epoche). Con essa mi vieto (mi disarmo) l’azione verso altri che non vorrei fosse fatta a me, e mi comando di fare (arma, azione) ad altri ciò che vorrei fosse fatto a me.
Questo significa che riconosco e affermo uguale valore a me e agli altri (imperativo categorico di Kant: «..la persona umana sempre come un fine, mai solo come un mezzo, sia in te che negli altri…»). Significa dunque parità (ma Ricoeur avverte: la parità può fondare anche la legge del taglione!), ma anche «priorità di Altri» (Levinas, ma già il vangelo e i mistici sufi), principio che compie e supera la Regola d’oro.
Per la Regola d’oro non posso nutrire una volontà e/o impugnare un’arma contro Altri: non essere “contro” qualcuno è disarmo morale in senso positivo: così facendo, per parte mia (ed è tutto ciò che posso) non aggiungo violenza nel mondo.
Ma così lascio campo libero alla violenza? No! Propongo attivamente una reciprocità positiva, anche se non posso determinarla nell’altro (tocca a lui corrispondere).

2) È negativo se mi privo delle armi morali, umane (coraggio, resistenza) e cedo alla viltà, alla resa. Se, per non armarmi contro altri (ed evitare il relativo rischio di fare violenza), non resisto, subisco, mi sottometto, mi arrendo, quindi collaboro passivamente alla violenza altrui, sia su altri, sia su di me. In tal modo, sono moralmente disarmato, ma favorisco l’azione armata altrui, non riduco ma incoraggio l’armamento violento del mondo. È questa l’obiezione (facile) opposta alla nonviolenza, come se fosse non-difesa, sottomissione, quella che Gandhi chiama (e che rifiuta) nonviolenza dei deboli.

II-B - disarmo materiale
Osserviamo come è diversamente inteso nel tempo: 1) Bibbia; 2) miti greci; 3) miti orientali; 4) storia romana; 5) pacifismo medievale; 6) pacifismo moderno; 7) pacifismo contemporaneo; 8) le chiese cristiane sul disarmo durante la guerra fredda; 9) oggi.

1) nella Bibbia
Leggiamo nei profeti biblici (non sono indovini, ma annunciatori di un messaggio): nel primo Isaia (dal 735 al 701 a. C.) cap. 2 e 11 c’è la promessa di un futuro in cui anche la violenza degli animali sarà superata: «il lupo pascolerà con l’agnello» (11,6), e gli uomini «non impareranno più l’arte della guerra» (2,4).
Osea, metà VIII secolo a.C.: «l’arco, la spada e la guerra li bandirò dalla terra» (2,20)
Però ricorre l’espressione famosa “Dio degli eserciti” (delle schiere). Essa afferma anzitutto che Dio è superiore alle schiere celesti, agli astri prima divinizzati e nella Bibbia desacralizzati (già nel racconto della creazione). Poi però ha anche un significato militare: Israele si sente guidato da Dio nelle guerre (fino all’uso bellico della religione nei secoli cristiani: benedizioni, messe al campo, Te Deum per le vittorie…).
Sono molte e frequenti le metafore militari per descrivere Dio guerriero contro il male, contro gli idoli: addestra alla guerra e dà la vittoria (salmo 18, 33-43); la spada di Dio sui Caldei (Babilonia; questo piacerebbe a Bush!), sui suoi cavalli e carri, e tesori e acque (Geremia 50, 35-38). Anche in san Paolo troviamo immagini militari per dire l’impegno (agone) della vita cristiana.
Il profeta Zaccaria (attivo nel 520-518 a.C.): «Non con la potenza né con la forza, ma con il mio spirito, dice il Signore degli eserciti» (4, 6b), perché è più forte delle armi: «Quelli fanno ricorso ai carri e quelli ai cavalli, ma noi al nome del Signore nostro Dio» (salmo 20, 8).
Dio odia e spezza le armi: spazza via carri e cavalli, infrange l’arco di guerra e annuncia la pace alle genti (Zaccaria 9,10). Dio «spezza l’arco, frantuma la lancia, dà alle fiamme i carri di guerra» (Salmo 46, 10). «La loro spada penetrerà nel loro cuore» (salmo 37,15). «Nessun re può salvarsi con la moltitudine dei suoi soldati… impotente è il cavallo a portare salvezza» (salmo 33,16-17).

Lo sterminio (herem) era una regola di guerra.
«Il re cananeo di Arad, che abitava il Negheb, appena seppe che Israele veniva per la via di Atarim, attaccò battaglia contro Israele e fece alcuni prigionieri. Allora Israele fece un voto al Signore e disse: “Se tu mi metti nelle mani questo popolo, le loro città saranno da me votate allo sterminio”. Il Signore ascoltò la voce di Israele e gli mise nelle mani i Cananei; Israele votò allo sterminio i Cananei e le loro città e quel luogo fu chiamato Corma» (Numeri 21, 1-3).
«Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare, perché essi non v'insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno per i loro dei e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio» (Deuteronomio, che è un libro di leggi, 20, 16-18).
Si possono vedere inoltre i seguenti molti passi: Genesi 7, 4; 1 Samuele 15; Giosuè 10, 19-41; Sapienza 12; Salmi 7, 5; 18, 41; 106, 34; 143, 12; Geremia 30, 11; 46, 28; 50, 21; Ezechiele 9, 1-11; Sofonia 1, 18; 3, 6.19; Zaccaria 13, 2; Apocalisse 9, 18. E temo che non siano tutti. In 1 Samuele 15, Samuele ordina a Saul lo sterminio totale (uomini, donne, bambini, animali) di Amalek; Saul risparmia il meglio degli animali, presi come bottino, e Samuele lo accusa: non vale sacrificare a Dio gli animali, doveva obbedire sterminandoli!
Lo sterminio è il massimo disarmo materiale: non sono distrutte le armi (utili come bottino), ma il popolo stesso nemico, i viventi stessi che potrebbero usare le armi. Però la ragione per Israele non è tanto bellica quanto è la necessità di evitare radicalmente la contaminazione religiosa con popolazioni idolatriche, per preservare la purezza della fede monoteista. Probabilmente, secondo gli studiosi, lo sterminio è più proclamato e vantato che esercitato. Nel mondo di oggi questo “disarmo” totale corrisponderebbe allo “scontro di civiltà”, che si vale anche della “pulizia etnica”, in cui una incompatibilità assoluta tra sistemi di valori assolutizzati porterebbe all’annientamento culturale o fisico dell’altro sistema per evitarne il contagio. Qui la violenza è il linguaggio sostitutivo del dialogo negato .

Gesù è chiaro: «Rimetti la tua spada nel fodero, perché chi mette mano alla spada di spada perirà» (Matteo 26, 52). Eppure si tratta della sua propria difesa! Ci sono dei passi evangelici in cui sembra di capire che Gesù ha sentito pure la tentazione di usare la violenza, ma l’ha superata. Non propone la distruzione, ma il non uso dell’arma, che si ritorce su chi la usa.
I famosi “paradossi” (offrire l’altra guancia; dare anche la tunica; fare un altro miglio di strada) del discorso della montagna in Matteo, sono stati lungamente interpretati come atti di sottomissione paziente alla violenza, rimettendo a Dio, in un altro mondo, ogni azione di giustizia. L’esegeta americano Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio (edizioni EMI, Bologna 2003) dà alcune interpretazioni interessanti, rivelatrici del fatto che quei consigli di Gesù offrivano una misura pratica e strategica per dare agli oppressi un potere nonviolento e liberante (pag. 308).
Vediamo qui solo il primo di quei consigli: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male, anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra» (Matteo 5, 38-39).
Per capire bisogna conoscere il contesto: per colpire la tua guancia destra, l’altro avrebbe dovuto usare la sinistra, il cui uso era vietato, riservato ai soli compiti impuri. Dovendo quindi usare la destra, il colpo sulla guancia sinistra poteva essere solo un manrovescio. Questo colpo, più che una percossa inflitta in una rissa tra pari, era un’umiliazione, destinata agli inferiori: schiavi, figli piccoli, donne. Gesù parlava a povera gente, che conosceva bene questa umiliazione. Ora, offrire l’altra guancia era privare l’oppressore della sua pretesa superiorità. Era come dirgli: «Prova ancora. Io non ti riconosco il potere di umiliarmi. Sono pari a te. Tu non riesci ad offendere la mia dignità». Questa reazione avrebbe messo l’offensore in difficoltà: come può colpire ora (ovviamente con la propria destra) la guancia sinistra presentatagli? Non più con un manrovescio (impossibile), ma col palmo della mano destra, come farebbe in una rissa con un proprio pari. Anche se facesse flagellare l’inferiore per quella reazione, questi avrebbe comunque mostrato in pubblico la sua uguaglianza naturale con chi si crede superiore. Il prepotente ne esce umiliato. Un debole ha impedito a un prepotente di svergognarlo, ed anzi ha svergognato lui. Dirà Gandhi: «Il principio dell’azione nonviolenta è la non-collaborazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare». Gli altri due casi (la tunica e il miglio di strada), visti nel contesto storico reale (morale ebraica del corpo; occupazione militare romana), hanno uguale significato: sono vere armi nonviolente di riscatto della dignità offesa. La nuova legge dell’amore e del perdono non ignora la verità (così come la riconciliazione non può avvenire che su base di verità: vedi il recente caso sudafricano). Se questa interpretazione di Wink è corretta, Gesù non si limita a superare le legge del taglione (vendetta regolata), tanto meno esorta semplicemente a disarmarsi davanti alla violenza, ma è un geniale ideatore di tecniche di lotta nonviolenta per la giustizia.

2) nei miti greci
Irene, la Pace, porta in braccio Pluto Bambino, la ricchezza; non c’è nulla nell’iconografia di Irene sulla neutralizzazione-distruzione delle armi.
L’Iliade, secondo Simone Weil, è il poema della forza (qui nel senso di violenza), che uccide ancor prima di uccidere, in quanto domina con la minaccia; ma anche poema della violenza in quanto sempre punita dal destino: «Ares è equanime e uccide quelli che uccidono». È la Nemesi (centrale nel pensiero greco). Omero descrive la forza (violenza, armi), ma anche ne denuncia l’assurdo con amarezza, e circonda di pietà le sue vittime, che sono tanto i vincitori quanto i vinti, ugualmente miseri. C’è il fascino delle armi scintillanti, ma anche pietà per il dolore che danno. Albeggia il problema del salvarsi – dis-armarsi ? – da questo inganno.
Alcune opere recenti riprendono il tema del fascino della guerra, che, per essere superato, deve essere considerato sul serio e vinto scoprendo anche la bellezza e non solo il dovere della pace. Per altro verso, l’opera citata di Drewermann, sociopsicologo, sottolinea in molte pagine «la deformazione dell’umano» determinata dal sistema militare in sé stesso.

3) nei miti orientali
Nelle culture orientali troviamo esempi di disarmo morale.
Sulla vittoria in guerra, Buddha (VI a.C.; 565-486 circa a.C.) dice: «Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia». Dunque, lotta, sì, ma contro se stessi, con armi morali.
«La vittoria alimenta inimicizia, perché chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice» .

Di Lao-tzu (sec. VI-V a.C., fondatore del taoismo, alternativo al confucianesimo) , leggiamo: «Le armi sono strumenti nefasti di cui un principe saggio si serve solo controvoglia, e per necessità, perché preferisce una pace modesta a una gloriosa vittoria. Non bisogna giudicare che una vittoria sia un bene. Chi lo facesse, mostrerebbe d’aver cuore d’assassino. Che un simile uomo regni sull’impero non sarebbe opportuno…». «Dove le truppe fecero soggiorno colà non nacque mai altro che sterpi e spine. E dopo i grandi eserciti ci furon sempre anni di carestia. E il buon condottiero vince e si ferma, non ardisce per questo usurpare potenza. Vince e non se ne gloria. Vince e non se ne vanta. Vince e non se ne estolle. Vince perché costretto. Vince ma non però per farsi grande».

Asoka, imperatore dell’India antica (buddhista, 270-265 fino circa 240 a. C.), sconvolto dalle proprie sanguinose guerre, decreta una tolleranza religiosa attiva a favore di tutte le comunità religiose, e nonviolenza verso tutti gli esseri, anche gli animali

La Bhagavadgita (tra i testi più venerati della tradizione indiana, attorno all’inizio dell’era volgare), sembra esaltare il dovere della guerra, perché Krishna supera l’esitazione e la ripugnanza di Arjuna a combattere contro i propri parenti. Però, l’oggetto non è tanto la guerra, quanto l’azione distaccata: sarebbe dunque come una parabola per insegnare l’azione doverosa senza attaccamento al risultato. Gandhi considerava come proprio vangelo una parte centrale (II, 54-72) di questo testo, e vi vedeva la vacuità della guerra e della vittoria.

4) nella storia romana
Cogliamo un frammento dalla storia romana. «Tito Livio narra come Scipione dopo la conquista di Cartagine Nuova (in Spagna, nel 209 a.C.; oggi Cartagena) non solo trattasse bene i prigionieri ma dava ordini di proteggere con rispetto e col massimo riguardo le donne, ribadendo che tali erano i principi e il costume del popolo romano, "perché nulla sia presso di noi oggetto di offesa, di ciò che in ogni luogo è considerato inviolabile". Sia il valore attribuito al nemico, sia l'interesse all'alleanza e alla costruzione di una civiltà di relazioni, non permise l'accadere di alcuno stupro di guerra ne' di episodi di umiliazione dei vinti» . E’ un caso – raro - di rinuncia (più che autodisarmo) dell’arma-stupro.

5) nel pacifismo medievale
La tregua di Dio nelle feste settimanali e annuali non è un disarmo, ma un “armi-stizio”, una fermata delle armi per incompatibilità tra giorni sacri e guerra, tra religione e guerra: qui una cultura religiosa confessa che la religione deve disarmare. È quasi un anticipo profetico – o anche ipocrita – di ciò che un giorno dovrà essere. C’è un’analogia con l’antica tregua olimpica.

Francesco e la crociata: nel 1219, egli va disarmato in quello che era visto come ”l’impero del male”, tanto che era detto “malicidio” (Bernardo di Chiaravalle), e non omicidio, l’uccidere gli infedeli considerati malfattori. A Damietta sul Nilo, Francesco sta due settimane a colloquio col sultano Kamil, trattato con rispetto e amicizia. È pressoché solo nel suo secolo a pensare «il vangelo senza spada» . Quando Francesco “sposa” la povertà spiega al suo vescovo perplesso che se avesse possessi dovrebbe avere armi per difenderle: la povertà è dunque disarmo delle relazioni umane, armate dalla brama di ricchezza.

I Valdesi scelgono la nonviolenza della chiesa apostolica, condannano la guerra, la crociata, la pena di morte, non portano armi, ma nei casi estremi usano le armi se aggrediti, e a volte hanno ceduto, uccidendo inquisitori e traditori .

6) nel pacifismo moderno
Gli Anabattisti (ri-battezzatori), 16° secolo, furono ostracizzati ugualmente da cattolici e da protestanti: rifiutando il battesimo dei bambini delegittimavano la cristianità sociologica come non cristiana. Rifiutavano il sistema politico che usava violenze antievangeliche (armi, pena di morte) legittimate dalla chiesa, e usava la chiesa come cemento dell’unità dell’impero. Vivevano disarmati, rifiutavano il potere militare, politico, giudiziario. Testimoniavano la pace, più che costruirla. I Riformatori li giudicarono un “nuovo monachesimo” (Lutero) e irresponsabili perché abbandonavano la politica agli increduli, vera eresia politica.

Un pacifismo più radicale e manicheo appare negli Articoli di Schleitheim, 6° articolo, del 1527: «La spada è un ordinamento divino fuori dalla perfezione di Cristo… Il governo dell’autorità costituita è secondo la carne, quello dei cristiani secondo lo Spirito… La sua cittadinanza è in questo mondo, quella dei cristiani nei cieli. Le armi del loro combattimento e della loro guerra sono carnali e combattono soltanto contro cose umane; le armi dei cristiani sono invece spirituali, contro le fortificazioni del diavolo».
Menno Simons (c. 1496-1561; da cui i mennoniti): «O amato lettore, le nostre armi non sono spade e lance, ma pazienza, silenzio e speranza, e la Parola di Dio… Essi [i veri cristiani] hanno trasformato le loro spade in vomeri d’aratro e le loro lance in roncole… e non impareranno più la guerra».
Dunque, due tipi di armi: carnali o spirituali. È disarmismo morale, non propone una politica senza armi. Il pacifismo anabattista era rinuncia dei cristiani alla vita politica, rinuncia a trasformare il mondo. Eppure, gli anabattisti, nella storia della chiesa, sono quelli che hanno avuto il maggior numero di martiri per la pace .

I Quaccheri hanno vita spirituale molto intensa, confidano nella «luce che illumina ogni uomo» (Giovanni 1, 9). Il loro è un pacifismo nonviolento, ma attivo, dalle origini (XVI sec.) fino ad oggi, (essi sono all’inizio delle maggiori organizzazioni mondiali per la pace e i diritti umani). Non sono tutti pacifisti dalle origini (qualcuno milita nell’esercito di Cromwell), ma lo diventano per approfondimento religioso. Rifiutano le armi, ma si assumono responsabilità civiche con impegno storico-politico, obbediscono alle leggi, salvo l’obiezione di coscienza.
William Penn (1614-1718) fonda lo stato della Pennsylvania: amicizia coi pellerossa, liberazione degli schiavi (che porterà in seguito all’abolizione della schiavitù), libertà di religione, Costituzione nel 1681, uguaglianza. Lo Stato quacchero dura 70 anni: la libertà di immigrazione pone i quaccheri in minoranza, sicché il parlamento decide di istituire un contingente militare! «Primo e unico stato che sia stato fondato senza un esercito, che abbia quindi rinunciato all’uso della violenza e alla sicurezza statale mediante la violenza».
Il 21 novembre 1660, emettono una dichiarazione pubblica al re Carlo II, in vigore fino ad oggi: «Noi ripudiamo energicamente tutte le guerre e le contese e ogni combattimento con armi materiali […] e ciò tanto per il regno di Cristo quanto per i regni di questa terra». Chissà se il verbo “ripudiare” nella Costituente italiana, art. 11, venne in mente grazie a questa memoria…
In un Appello alle chiese cristiane di tutto il mondo (1923), scrivono: «La più urgente delle riforme del nostro tempo è di abolire la guerra, di stabilire, ad esclusione di qualsiasi altro mezzo, misure pacifiche per regolare le vertenze… Questi mezzi pacifici non potranno riuscire fino a che le nazioni non avranno trasformato le loro spade in vomeri e non avranno cessato di imparare la guerra» .
A proposito dei quaccheri, insieme ad altri grandi esempi storici, Aldo Capitini scrive: «Gli storicisti debbono riconoscere che sul piano storico non è vero che il nonviolento perde sempre e il violento vince sempre, se è vero che […..] William Penn, quando si presentò con i suoi amici quaccheri ai pellirosse senza alcuna arma, i capi gettarono via le proprie armi, e sorse uno stato di pace, a differenza di tutti gli altri dell’America del Nord. Esistono vittorie senza violenza» .

Erasmo da Rotterdam (1466-1536) vede nelle nuove armi (inizio del 1500) un salto di qualità che lo sconvolge: le artiglierie fanno stragi. «Gli uomini sono nati inermi, eterno Dio, ma di quali mai armi li ha dotati il furore! Con macchine infernali i cristiani assalgono i cristiani. Chi mai crederebbe invenzione umana le bombarde?» . Come alternative alla guerra indica l’arbitrato (specialmente del papa), le virtù cristiane, ma non parla di disarmo

7) nell’umanesimo cristiano
Anche Erasmo appartiene a quest’area. Paolo Ricca, nell’opera citata (pp. 129-130) giudica il pacifismo degli umanisti cristiani sia al di qua della fede degli anabattisti, sia al di qua della politica come spazio proprio riconosciuto da Lutero.

Bartolomé de las Casas (1474-1566), nominato “Protettore degli Indios”, denuncia le radici anticristiane del colonialismo, “disarma” la missione evangelizzatrice nelle Americhe, contrastato dai coloni, ottiene da Carlo V le Nuove leggi sulle Indie, nel 1542, ma inapplicate. «Il Cristo non ha dato a nessuno il potere di costringere o di molestare gli infedeli che si rifiutano di ascoltare la predicazione della fede o di accogliere i predicatori nella loro terra» .

Nicola Cusano (1401-1464): nel De pace fidei, 1453, scritto sotto lo choc della caduta di Costantinopoli, sembra voler disarmare in anticipo lo scontro di “verità religiose armate” del secolo successivo. Pur affermando una maggiore luce di Dio nella fede cristiana, vede tutte le religioni, anche l’ebraismo e l’islam, come parte di una comunità credente universale; accetta non solo la positiva varietà dei riti, ma anche le diversità dottrinali come formulazioni diverse della verità; cerca ogni possibile argomento di accordo tra le fedi; dilata enormemente il concetto di universalità della chiesa cristiana invisibile, fino a tutta l’umanità, fino a quelli che noi oggi diremmo non confessionali o non credenti; la sua idea di tolleranza non è negativa, non è “sopportazione”; pur su una base cristocentrica (perché Cristo opera in tutti); vuole ridurre i conflitti religiosi nella società, tra ragione e fede, tra etica evangelica e etica razionale (tanto che Federici Vescovini parla di “secolarizzazione” anticipata, pur mettendo in guardia dal de-contestualizzare Cusano). Il suo principio è «exactam quaerere conformitatem est potius pacem turbare» (pretendere una completa conformità è piuttosto turbare la pace). Le religioni vanno intese e avvicinate come fattori di pace .

8) il disarmo nel pacifismo contemporaneo
Norberto Bobbio individua tra i tipi di pacifismo quello “strumentale”, che consiste in due distinte azioni:
a) distruzione o drastica limitazione degli strumenti bellici (dottrina e politica del disarmo); è il disarmo materiale progressivo;
b) sostituzione dei mezzi nonviolenti ai mezzi violenti (teoria e pratica della nonviolenza, in particolare la dottrina del Satyagraha di Gandhi) ; è il disarmo materiale quanto alle armi omicide, ma non è disarmo quanto alle armi umane della forza di resistenza.

I movimenti antimilitaristi, anti-armamenti - da Bertha von Suttner , premio Nobel per la Pace (il primo conferito ad una donna) nel 1905 (siamo quest’anno nel centenario!) fino al movimento antinucleare (nel 2005 ricorre il 50° del grande manifesto Einstein-Russell), e al movimento antimissili degli anni ’80 - rappresentano il versante negativo, animato anche da ben legittima paura, del movimento complessivo e positivo della cultura della pace. Rappresentano un0iniziativa che sorge dal basso e dall’interno delle società e delle loro articolazioni, non dalle cancellerie e diplomazie.

9) Dichiarazioni delle chiese sul disarmo durante la guerra fredda

- 9-A) I documenti delle chiese evangeliche riflettono un dibattito e una ricerca attorno alla nozione di “guerra giusta” e al suo superamento, dati i caratteri della guerra moderna. Quella nozione è superata definitivamente nella Conferenza mondiale di “Chiesa e società”, Ginevra 1966, che indica linee concrete di coesistenza pacifica imperniata attorno all’Onu.
La 5ª Assemblea mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Nairobi 1975, decise di «continuare l’esame di ciò che significa l’azione nonviolenta in vista del cambiamento sociale e la lotta contro il militarismo», avviò un programma sulla corsa agli armamenti, dichiarò che la dottrina delle deterrenza è uno degli “idoli” che i cristiani devono «smascherare e sfidare».
Il Sinodo Generale della Chiesa Riformata d’Olanda, 1980, chiede chiaramente la denuclearizzazione unilaterale del paese, affinché il negoziato sia unito a «passi che si situano già sulla via del disarmo»;
La presa di posizione «più meditata e avanzata sulla pace» nell’ambito delle chiese evangeliche, fino al 1982, è la “Confessione di fede in Gesù Cristo e la responsabilità della Chiesa per la pace”, dell’Alleanza Riformata della Repubblica Federale Tedesca: la questione della pace mette i cristiani davanti all’alternativa di confessare o rinnegare l’Evangelo. Questo punto di vista suscitò un dibattito vivacissimo tra i teologi e nelle chiese. Il documento indicava molte misure precise, sebbene caute, sul disarmo, come «primi passi» necessari e doverosi, con un richiamo favorevole al precedente documento olandese: «Dato che si è rivelato impossibile compiere tali passi mediante accordi multilaterali, questi devono essere compiuti unilateralmente».
La 6ª Assemblea mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Vancouver, 1983, respinge il concetto di deterrenza; definisce già la sola «produzione di armi nucleari un crimine contro l’umanità»; invita «cristiani e non cristiani a rifiutare ogni forma di collaborazione o di lavoro nell’ambito di progetti che riguardano la guerra o gli armamenti nucleari»; dice che devono essere «accolti con gioia […] tutti i mezzi che conducono al disarmo», anche le «iniziative unilaterali».

- 9-B) Dichiarazioni della chiesa cattolica.
Nel cristianesimo delle origini troviamo il rifiuto delle armi, o almeno del loro uso in guerra; poi avviene un accomodamento con la difesa dell’impero cristiano, e sant’Agostino costruisce la teoria della “guerra giusta” (meglio: giustificata a determinate condizioni), che dura fino al ‘900.
Nel 1963, Giovanni XXIII pubblica l’enciclica Pacem in terris, il primo documento organico sulla pace dai tempi di S. Agostino! Dichiara che è irrazionale – alienum a ratione – pensare che la guerra sia strumento adatto a risarcire il diritto violato; che è illusorio e pericoloso basare la pace sull’equilibrio degli armamenti; li si riduca simultaneamente e reciprocamente; è necessario il disarmo integrale, cioè anche degli spiriti, perché la pace si costruisce sulla fiducia reciproca.
Il Concilio Vaticano II (1962-1965), nella Costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, elogia la difesa nonviolenta (disarmata) (n. 78); non è scusabile l’obbedienza a ordini criminali perché contrari al diritto delle genti; le leggi provvedano umanamente a chi per motivi di coscienza rifiuta l’uso delle armi mentre accetta un altro servizio alla comunità; non si può negare ai governi il diritto alla legittima difesa, in mancanza di una autorità internazionale efficace; anche i militari che fanno il loro dovere concorrono alla stabilità della pace (n. 79); la guerra moderna va considerata con mentalità completamente nuova; ogni atto di guerra che mira a distruzione vasta e indiscriminata è delitto e va condannato con fermezza (n. 80). Il Concilio si astiene dal condannare la dissuasione nucleare, ma dice che la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità, danneggia i poveri, produrrà stragi (n. 81); dobbiamo con impegno preparare quel tempo nel quale, mediante l’accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra, una volta istituita una efficace autorità pubblica universale; tutti devono impegnarsi per far cessare la corsa agli armamenti, non unilateralmente, s’intende, ma con uguale ritmo, con accordi e garanzie (n. 82).
Manca dunque una condanna totale della guerra e anche della dissuasione nucleare (per le pressioni dei vescovi statunitensi: era in corso la guerra del Vietnam), ma la condanna relativa è l’unico giudizio del genere in un concilio non dottrinale, ma tutto pastorale, che non emette alcuna altra condanna .
Paolo VI (papa dal 1963 al 1978), richiamandosi alla lezione della Pacem in terris di Giovanni XXIII, davanti all'Assemblea dell'Onu, il 4 ottobre 1965, affermava: «Alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; la prima è quella del disarmo».
Nel 1976, Paolo VI giudica errore di ottimismo il disarmo unilaterale: «Il disarmo o è di tutti o è un delitto di mancata difesa» . In questo pensiero, la difesa militare è concepita come l’unica forma di difesa.
Giovanni Paolo II, nel messaggio all’Angelus del 13 dicembre 1981: «Di fronte agli effetti scientificamente previsti come sicuri di una guerra nucleare, l’unica scelta, moralmente e umanamente valida, è rappresentata dalla riduzione degli armamenti nucleari, in attesa della loro futura eliminazione completa, simultaneamente effettuata da tutte le parti» .
Nel 1976 è presentato all’Onu il documento La S. Sede e il disarmo. Esso ribadisce i princìpi finora affermati, rilancia la “pace mediante il diritto”, quindi l’importanza dell’Onu per l’effettiva integrazione politica dell’umanità. La parte più nuova e rivoluzionaria è quella finale, che postula una «nuova filosofia» e una «nuova teologia» della pace: «La strategia del disarmo […] deve appoggiarsi su una visione etica, culturale e spirituale»; richiede una riflessione approfondita filosofica e teologica «circa la nozione di “legittima difesa”, il concetto di “nazione”, di “sovranità nazionale”, troppo spesso concepita nei termini di un’autarchia assoluta» .
Giovanni Paolo II, nel discorso pronunziato il 12 novembre 1983 per la Sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, dedicata al tema: «La scienza al servizio della pace », disse tra l’altro: «I profeti disarmati sono stati oggetto di irrisione in tutti i tempi, specialmente da parte degli accorti politici della potenza, ma non deve forse oggi la nostra civiltà riconoscere che di essi l'umanità ha bisogno? Non dovrebbero forse essi soli trovare ascolto nella unanimità della comunità scientifica mondiale, affinché siano disertati i laboratori e le officine della morte per i laboratori della vita? Lo scienziato può usare della sua libertà per scegliere il campo della propria ricerca: quando in una determinata situazione storica è presso che inevitabile che una certa ricerca scientifica sia usata per scopi aggressivi, egli deve compiere una scelta di campo che cooperi al bene degli uomini, all'edificio della pace. Nel rifiuto di certi campi di ricerca, inevitabilmente destinati, nelle concrete condizioni storiche, a scopi di morte gli scienziati di tutto il mondo dovrebbero trovarsi uniti in una volontà comune di disarmare la scienza e di formare una provvidenziale forza di pace. Dinanzi a questo grande malato, in pericolo di morte, che è l'intera umanità, gli scienziati, in collaborazione con tutti gli altri uomini di cultura e con le istituzioni sociali, devono compiere un'opera di salutare salvezza analoga a quella del medico, che ha giurato di impegnare tutte le sue forze per la guarigione degli infermi». Si trattava di un chiaro invito all’obiezione di coscienza – rifiutare la ricerca a scopi di morte; disarmare la scienza – rivolto a scienziati e ricercatori. Non risulta una risposta significativa a questo appello.

Nell’indice del volume citato di Cavagna e Mattai, sono indicativi già i titoli (dati dai curatori del libro) di alcuni dei vari documenti di singoli vescovi o di conferenze episcopali sul disarmo, negli anni ‘70 e ‘80: “Oltre la sicurezza delle armi”, “È preferibile il rischio del disarmo”, “Le armi sono una minaccia, non una garanzia”, “Via le armi nucleari dall’Europa”, “Disarmo unilaterale e obiezione fiscale”.

10) Oggi
Oggi c’è un movimento mondiale anti-nuova-guerra, che è guerra costituente normale della politica, col professionismo militare, con i legami stretti indissolubili tra economia e guerra (economia che produce guerra, guerra che difende un assetto economico), col disprezzo del diritto internazionale limitativo della guerra .
Ieri l’equilibrio del terrore creava il terrore dello squilibrio fatale, catastrofico.
Oggi lo squilibrio di potenza crea nei popoli la volontà di limitare la potenza e di opporsi alla imperiale volontà di potenza.
Mi pare di vedere una evoluzione: dalla paura delle armi (specialmente delle armi di distruzione di massa; ma il maggior numero di vittime è opera delle armi leggere) alla critica e opposizione alla cultura delle armi, mediante lo sviluppo di alternative non armate e nonviolente nella gestione dei conflitti; dalla critica dell’apparato militar-industriale alla critica dei fondamenti psichici, morali, ideologici, religiosi della cultura di guerra.
Riascoltiamo Panikkar: «Il compito della filosofia nel momento attuale (…) consisterebbe, a mio parere, nel disarmare la ragione armata» .

III – Chi disarma chi?

Nell’azione di disarmo, se chi disarma è diverso dal disarmato, abbiamo il disarmo altrui, se il disarmante è lo stesso disarmato, abbiamo il disarmo proprio.

1) Disarmo altrui:
Il vincitore disarma il vinto, il più forte indebolisce ulteriormente il più debole, il più armato diventa al confronto ancora più armato.
La prima cosa che fa il vincitore al vinto nel conflitto violento è disarmarlo, per abolire il pericolo; un tempo lo legava come trofeo al proprio carro, o lo riduceva in schiavitù; oggi lo sottomette culturalmente ed economicamente.
La prima cosa che il vinto cerca di fare è riarmarsi e prendere la rivincita.

Problema: col disarmo del vinto, il vincitore si assicura davvero una stabilità diseguale, una paralisi del debole? È, quel disarmo, il successo e la sicurezza del vincitore? Oppure è la sua illusione, perché si innesca la spirale M/m (maggiore- minore)?
Si innesca la spirale, perché chi è messo in posizione “m” è provocato a cercare di diventare “M” (teoria di Pat Patfoort); perché il più debole si sente minacciato e cerca sicurezza nel riacquistare forza; con ciò minaccia la sicurezza del più forte. Infatti, la sicurezza o è reciproca o non c’è; l’insicurezza dell’avversario è la “propria” insicurezza. Sicurezza insicura è quella unilaterale; sicurezza sicura è quella reciproca.
Negli anni ’80, i pacifisti tedeschi dicevano: «La propria sicurezza sta nel mostrare all’avversario la propria strutturale incapacità di aggressione», insieme alla capacità di difendersi.
Esempio storico plateale della stoltezza del disarmare il vinto: la pace punitiva di Versailles, 1919, gravida della guerra successiva.
Alternativa alla spirale è l’equivalenza: cioè l’uguaglianza di valore, dignità, diritti, anche nella differenza di forza; è la “pace di soddisfazione” (Raymond Aron, Norberto Bobbio).
All’altro estremo, il più sicuro “disarmo del vinto” è lo sterminio: tolte non le armi soltanto, ma i corpi che usano le armi. Ma chi stermina la memoria? E la memoria traumatica della sconfitta è un’arma che prepara armi: siamo di nuovo nella spirale! Anche la memoria degli indoamericani sterminati dopo la Conquista oggi ritorna, dopo 5 secoli, e può volgersi in guerra, oppure in rivendicazione nonviolenta, ma rivendicazione.

2) Disarmo proprio: a) degli individui; b) dello stato

a) disarmo degli individui: sia spontaneo, sia imposto per legge.
I cittadini accettano di delegare esclusivamente allo stato l’uso della forza (che non è la violenza!); rinunciano alla pericolosa autoprotezione, perché sono protetti dallo stato. Il riarmo dei cittadini è più pericoloso: si veda la differenza tra gli stati europei e gli Stati Uniti d’America, dove gli omicidi privati sono molto più numerosi, anche a causa della capillare diffusione di armi nella popolazione, e della mentalità di autodifesa immediata. Il disarmo individuale in Italia è costituzionale: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi» (art. 17 Costituzione). Essere armati, “detenere armi”, è grave reato, salvo speciale (rischioso) permesso di porto d’armi.

b) disarmo dello stato, che può essere: b-1) unilaterale ; b-2) preventivo, anticipato; b-3) bilanciato, patteggiato.
b-1) disarmo unilaterale : negli stati senza esercito: la Pennsylvania originaria; lo stato nonviolento preconizzato da Gandhi: non senza polizia, ma senza esercito . Il Costarica dal 1949 ha abolito l’esercito; negli anni ’70 aveva 1.000 uomini nella polizia e 700 nella guardia costiera, unici corpi armati (dati dell’Enciclopedia Garzanti, 1977); una corrispondenza dal Costarica informa che gli analfabeti sono solo il 4,2% (circa 30% nel Centroamerica); «Le nostre caserme sono le scuole» è il vanto dei costaricani; la speranza di vita è di 77 anni (il più alto di tutta l’America Latina); c’è nel paese una presenza diffusa della polizia, come azione preventiva; si danno 7 omicidi ogni 100.000 abitanti (che sono 4 milioni); il 25% della popolazione è di immigrati accolti, che hanno arricchito la cultura locale; il Costarica ha fatto una sola guerra nel 1856 contro avventurieri al soldo di ricchi statunitensi; il paese ospita l’Università internazionale della pace. Ma nel 2003 governo di Abel Pacheco approva la guerra degli Usa all’Iraq, con opposizione generale dell’opinione pubblica.

Una forma di questo disarmo è la rinuncia all’esercito. Il 26 novembre 1989 si è tenuto in Svizzera un referendum sull’abolizione dell’esercito: il sì ottenne il 35,6% (per il ministro della difesa sarebbe già stata una catastrofe il 30%, che era il massimo previsto), con punte del 55,5 % nei cantoni di Ginevra e del Giura
La Lega del Disarmo Unilaterale (LDU), sorta in Italia negli anni ‘80, ebbe tra i suoi esponenti più noti Carlo Cassola ed Ernesto Balducci. Qualche brano dai testi di Cassola (Roma 17 marzo 1917; Lucca 29 gennaio 1987) che si leggono nel sito www.nonluoghi.org : «Noi disarmisti siamo accusati di essere sognatori fuori dalla realtà. Invece siamo i soli realisti. Gli altri, i sedicenti realisti, sono solo struzzi che hanno nascosto la testa sotto la sabbia per non vedere le conseguenze scellerate della loro politica: l’imminente fine del mondo e l’attuale miseria del mondo».
In La rivoluzione disarmista, Rizzoli 1983, Cassola scrive: «L’utopia può diventare realtà solo mediante la rivoluzione. Un’evoluzione graduale e pacifica è impensabile: come può il male evolvere verso il bene?». «Sono queste vecchie, stupide e malvagie istituzioni che ci portano alla rovina. Dobbiamo distruggerle prima che sia troppo tardi. Non bisogna distruggerle gradualmente (non ne avremmo il tempo) ma tutte d’un colpo. Occorre un taglio netto col passato. Questo taglio netto è appunto ciò che chiamiamo rivoluzione».
Ernesto Balducci, che aderì alla LDU, ma non pensava una tale immediatezza (vedi sotto il paragrafo sul Transarmo), diede alla sua antologia di testi e documenti sulla pace nella storia, scritta con Ludovico Grassi, già citata, , il titolo La pace, realismo di un’utopia.

b-2) disarmo preventivo, anticipato col primo passo, iniziativa e sfida alla descalation.
Gorbaciov invertì (spontaneamente, sia per necessità economica dell’Urss, sia per responsabilità verso il mondo) la crescita degli armamenti in decrescita e sfidò Reagan a seguirlo.
Non è disarmo unilaterale, ma è fare il primo passo e attendere risposta, provocando l’avversario davanti all’opinione mondiale. Se l’altro non risponde, è lui l’armista, perché non ha più come scusa la crescente minaccia dell’avversario.
Il disarmo preventivo, prima del massacro o del rischio più acuto, corrisponde ad una saggezza animale, di sopravvivenza: gli animali della stessa specie non arrivano per natura a sopprimersi: il più debole riconosce e si sottomette, in cambio della vita. Dunque, né "meglio morti che rossi", né “meglio rossi che morti”, ma “meglio vivi che morti”, con la possibilità di agire ancora per un vivere più giusto.

b-3) disarmo bilanciato, patteggiato, bilaterale.
È questo il disarmo cercato da tutte le conferenze, trattative, accordi, ad alto rischio di diffidenza, attendismo, immobilismo, inconcludenza.

b-4) si può aggiungere un quarto tipo di disarmo dello stato: quello voluto e preteso dal basso, da movimenti anti-guerra, anti-armisti (v. sopra II-B, n. 8)
Oggi in Italia c’è una campagna controlarm: vedi i siti www.controlarms.org; www.disarmo.org. Nel 1993 una proposta di legge di iniziativa popolare tentò di tradurre in legislazione ordinaria il principio costituzionale del ripudio della guerra (art. 11), anche con un rigoroso controllo sugli armamenti e sui trattati internazionali. Di recente, un forte contrasto è stato opposto alla revisione liberista della legge sul commercio delle armi del 1990.
La campagna internazionale contro le mine ha conseguito un relativo successo, almeno per il futuro.
Quindi, il disarmo dello stato può anche distinguersi in totale (b-1), progressivo (b-2), parziale (b-3), democratico (b-4).

IV - Disarmo come? disarmo quando?
Il come l’abbiamo visto: o libero (di iniziativa spontanea; contrattato) o imposto dal vincitore al vinto.
Disarmo quando? Si tratta della modalità tempo: o dopo l’uso delle armi, o prima dell’uso delle armi. In questo secondo caso, possiamo avere un disarmo concordato, oppure imposto preventivamente. Quest’ultimo è il caso del conflitto Usa-Iraq, sfociato in “guerra preventiva” nel 2003, col motivo di togliere all’Iraq le armi di distruzione di massa (mai trovate dopo l’occupazione). Puoi aggredire o addirittura devi farlo – se ne sei sicuro - chi starebbe per aggredire altri?
La risposta al quesito non è facile. Se rispondi sì, diventi tu l’aggressore! Direi almeno questo: come un cittadino qualunque, senza essere pubblico ufficiale, può arrestare un ladro colto in flagrante, non certo per ucciderlo o farlo linciare, ma solo per consegnarlo alla giustizia più regolare che sia possibile, così ha una legittima competenza ad agire sul piano internazionale, stante la situazione di molta anarchia internazionale, chi opera per fare evolvere questa situazione selvaggia nella direzione di una organizzazione più civile e legale della convivenza tra i popoli, e non mantiene soltanto, a vantaggio della propria maggiore forza, tale situazione di assenza di legge.
Nel caso attuale, se gli Stati Uniti, che sono il 5% (cinque per cento!) dell’intera umanità, lavorassero per l'autorità dell'Onu, per il tribunale penale internazionale, per la giustizia economica planetaria, per la salvaguardia dell'ambiente naturale di tutta l'umanità (che essi inquinano più di tutti, e non intendono mutare il loro livello di consumi), allora la loro azione di necessità, anche preventiva, contro i crimini internazionali sarebbe credibile e scusabile. Ma davvero non è questa la loro linea. La regola superiore della loro azione è il loro interesse particolare, economico, energetico, culturale, strategico, geopolitico, “ignorando e sprezzando del tutto il diritto internazionale” (Habermas, il manifesto. 05 febbraio 05). Non sono degni, neppure nell'emergenza provvisoria, di governare e giudicare il mondo. Indegni come sono, governano e giudicano il mondo.
Ci si potrebbe chiedere proprio: chi è il pericoloso da disarmare?

V – Disarmo quanto? quali armi? quale disarmo?

Riprendiamo la distinzione tra armi morali e armi materiali, per alcune altre osservazioni su disarmo morale e disarmo materiale.

Il disarmo morale (quello di tipo non negativo ma positivo), è la cultura nonviolenta dei conflitti, l’educazione personale e sociale alla pace nonviolenta.
La neutralità non è disarmo (infatti conserva le armi difensive) ma impegno a non aprire né intervenire in conflitti armati (Lidia Menapace ha elaborato una precisa proposta di neutralità militare dell’Europa), quindi acquistando una capacità politica di mediazione.
Il disarmo psicologico è uscire dal vittimismo, che vede solo la propria sofferenza e offesa; è arrivare al riconoscimento delle reciproche sofferenze (come propone David Grossman, 8 febbraio 2005, per la conferenza di Sharm el Scheik tra Israele e Palestina; è il metodo della Scuola di Pace di Nevé Shalom-Wahat as Salam, tra giovani israeliani e palestinesi; è il metodo del Parents’ Circle, e di simili associazioni israelo-palestinesi).
Infatti, l’arma psichica, l’essere psichicamente armati (rivolti contro; in preda al bisogno di vendetta; disposti ad aggredire, offendere, distruggere) consiste nel sentire la propria insopportabile offesa e nel vedere l’altro unicamente come offensore, immune da dolore. Se invece lo riconosco anche offeso e dolente, come mi sento io, perché il conflitto fa soffrire entrambi, allora nasce in me un sentimento di uguaglianza, di com/passione, che è l’inizio dell’uscita dalla separazione assoluta delle sorti, caratteristica del conflitto distruttivo.
Nel conflitto violento, io infliggo una sofferenza che “non sento” perché non è mia, ma è “restituita”, “scaricata” fuori, sul nemico; sento solo la “mia” sofferenza, che mi dà “diritto” di scaricarla ad altri, al colpevole, nella convinzione (illusione) di liberarmene così. Se in una pausa, in cui possono passare parole e sguardi tra me e il nemico (come avveniva talvolta da una trincea all’altra, nella prima guerra mondiale, e il soldato commetteva quel reato militare di “intelligenza col nemico”, col quale ritornava umano), riesco ad osservare anche la sofferenza del nemico, allora comincio a “sentirla” in lui come in me, e ciò pone la base possibile del parlare, trattare, fare pace-patto, perché si partecipa di una profonda comunanza umana, la sofferenza, che forse è la più profonda delle esperienze comuni a tutti, prima o poi.

Il disarmo materiale può riguardare le armi difensive, quelle offensive, quelle di distruzione di massa.
Un programma di disarmo difensivo riguarderebbe l’esercito: mantenere il minimo valutato necessario, senza rassegnarsi alla fatalità del modello armato come unico, ma considerarlo come da trasformare verso il modello della difesa popolare nonviolenta.
Disarmo della polizia? Se appare ancora utopistico disarmarla completamente, non è utopistico educarla alla nonviolenza. Su una linea prospettata da Gandhi , sono nate iniziative recenti, specialmente dopo i gravissimi eccessi di violenza poliziesca a Genova nel luglio 2001, in varie città, fra le quali anche Palermo. Una proposta di legge è stata presentata nel 2001 (vedi La nonviolenza è in cammino, nbawac@tin.it , negli anni 2004-2005).
Quanto alle armi offensive, non ci sarebbe nulla da dire: il principio costituzionale (artt. 11 e 52) della assoluta limitazione degli armamenti alla difesa legittima di popolazione, territorio, istituzioni - sebbene ripetutamente e strutturalmente violato da tutti i governi della Repubblica con l’alleanza nella Nato, fornita di mezzi aggressivi e recentemente orientata ad interventi armati fuori area, col Nuovo Modello di Difesa (dal 1991 in poi), e persino con le guerre del 1999 e del 2003 - esige che la Repubblica italiana non possieda armi offensive (tali sono, di loro natura, tutti i sistemi aerei, navali, missilistici capaci di lunga gittata).
Le armi ABC, di distruzione di massa, a maggior ragione devono essere ripudiate dall’Italia. Ciò può avvenire con accordi internazionali, con “primi passi” unilaterali, con la denuncia degli accordi che coinvolgono l’Italia nella possibilità di uso di tali armi o anche solo nell’ospitarle sul territorio nazionale, ciò che avviene in abbondanza.
In mancanza di simili accordi statali, sorge lo spazio per le obiezioni personali di ogni cittadino fedele al concetto e alla politica di difesa richiesti dalla Costituzione. Norberto Bobbio, nel già citato volume Il problema della guerra e le vie della pace, (prima edizione, 1979), scriveva: «Di fronte alla guerra termonucleare non possiamo più sostenere certe tradizionali teorie di giustificazione della guerra, e siamo costretti a riconoscere che essa è incondizionatamente un male assoluto […] Di fronte alle prospettive della nuova guerra siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori . […] Quando nel concetto di arma rientra una bomba che, com’è noto, ha da sola un potere esplosivo superiore a tutte le bombe gettate sulla Germania nell’ultima guerra, è lecito domandarsi se il portar armi non sia diventato un problema di coscienza per tutti» (pp. 10, citando un proprio articolo del 1962).
Un’affermazione così netta sull’obiezione alla guerra nucleare e dunque – parrebbe dalle parole citate – semplicemente alle armi di tale tipo, Bobbio non la ripete nelle successive edizioni del libro 1984, 1991, 1997.
Le armi convenzionali costituiscono un problema non solo irrisolto, ma neppure affrontato. Distinguiamole ancora in armi pesanti e armi leggere. Sulle armi pesanti, vedi quanto detto sopra riguardo alle leggi sul loro commercio, le limitazioni, il controllo dal basso.
Più che mai riguardo alle armi leggere, il problema è tutto da affrontare: il machete in certi casi (strage in Ruanda, per esempio) ha ucciso più del fucile, perciò nasce dal basso la richiesta di trattare limitazioni anche delle armi leggere (che sono le più facilmente diffuse).
Se vogliamo vederlo, c’è anche il problema delle armi improprie (appunto il machete), il quale rinvia quasi completamente alla responsabilità personale, all’educazione morale, al clima culturale, etico e politico.

VI – Transarmo
Il transarmo è la trasformazione dell’armamento.
«Noi vorremmo il disarmo – diceva Galtung già durante la guerra fredda – ma siamo minoranza e non l’otterremmo. Allora chiediamo che cambi l’armamento, anche per maggiore sicurezza. Fra il riarmo e il disarmo c’è il transarmo: trasformazione dell’armamento da crescente a calante, soprattutto da strutturalmente offensivo, aggressivo, a strutturalmente, esclusivamente difensivo»
Scriveva Galtung: «Transarmo: processo di transizione da un modello di difesa fondato su armi di offesa a un modello di difesa che utilizza esclusivamente armi difensive, sino alla loro totale estinzione nel caso della difesa popolare nonviolenta. Comporta un mutamento profondo della dottrina di sicurezza militare e costituisce l’effettiva premessa per un reale e duraturo disarmo generalizzato in quanto non si limita a proporre lo smantellamento dei sistemi d’arma lasciando inalterato il meccanismo che li genera, ma modifica il punto di vista, il paradigma e la dottrina militare» .
«Collocherei la definizione della distinzione tra offensivo e difensivo in uno spazio geografico: il sistema d’arma può essere usato efficacemente altrove o solo nel proprio paese? Nel primo caso il sistema d’arma è offensivo, soprattutto qualora il termine ‘altrove’ comprenda paesi coi quali si è in conflitto. Nel secondo caso, è difensivo, essendo operativo solo quando si verifichi un attacco» .
Scrive Jean-Marie Muller: «Non si tratta tanto di reclamare il disarmo quanto di creare le condizioni che lo rendono possibile. In questa prospettiva, conviene fissarsi un obiettivo che tenga conto della realtà e della necessità di creare una dinamica capace di cambiarla. Il concetto di transarmo sembra il più appropriato per designare questo obiettivo. Questo concetto esprime l'idea di una transizione nel corso della quale devono essere preparati i mezzi di una difesa civile nonviolenta che apportino delle garanzie analoghe ai mezzi militari senza comportare gli stessi rischi. Mentre la parola disarmo non esprime che un rifiuto, la parola transarmo vuole tradurre un progetto. Mentre il disarmo evoca una prospettiva negativa il transarmo suggerisce un passo costruttivo. La sicurezza è un bisogno fondamentale di ogni collettività umana, e, nella misura in cui i membri di una società hanno il senso che la loro sicurezza esige il possesso di armi capaci di opporsi efficacemente ad un'aggressione, il disarmo non potrà generare in loro che una profonda insicurezza. Prima di potere disarmare, bisogna poter lucidare delle armi diverse da quelle della violenza. Tuttavia, i concetti di transarmo e di disarmo non sono antagonisti, perché una delle finalità del processo di transarmo è di rendere possibili delle misure effettive di disarmo. Il transarmo mira a creare un'alternativa alla difesa militare, cioè mira ad organizzare una difesa civile nonviolenta che possa sostituirsi alla difesa armata» .
Ho osservato che questo concetto di transarmo presentato da Muller differisce un poco da quello proposto da Galtung e più noto in Italia, citato sopra da Ambiente, sviluppo e attività militare. La nozione di Galtung è più articolata nei passaggi intermedi .

Tutto all’opposto del transarmo come passo di pace con la riduzione della minaccia, è il Nuovo Modello di Difesa programmato a partire dal 1991 e messo in atto progressivamente da tutti i governi succedutisi in Italia (vedi Appendice A).

In linea con la cultura del transarmo è una proposta di programma per una politica di pace più avanzata, presentata al leader dell’opposizione italiana, Romano Prodi, a fine dicembre 2004 (vedi Appendice B)

VII – La guerra privatizzata, come disarmarla?
Ma ecco che, nel frattempo, si è trasformata anche la guerra: privatizzata, de-localizzata dalle istituzioni statali alle compagnie militari private; senza né uno scopo politico razionale, né un rendiconto politico, ma solo scopo di profitto economico; con occultamento dell’effetto-vittime, difficile da sopportare in democrazia; vera interruzione e sostituzione della politica con la guerra, e non sua continuazione.
«Il monopolio nazionale della violenza legittima organizzata è stato eroso […] dal basso dalla privatizzazione della violenza organizzata, tipica delle nuove guerre. A quali condizioni le istituzioni per la sicurezza nuove o già esistenti saranno in grado di eliminare o rendere marginali le forme privatizzate di violenza? La mia opinione è che questo dipende da scelte politiche e da come stabiliamo di analizzare la natura della violenza contemporanea, nonché da quale concezione della sicurezza adottiamo» .
Marco Revelli, sulla scorta di Ulrich Beck (Un mondo a rischio, Einaudi, 2003), parla di “individualizzazione della guerra”. Per ragioni scientifiche e tecnologiche, gli stati perdono il monopolio e il controllo sulle armi, specialmente le più terribili, di distruzione di massa. L’osservazione è «devastante»: chiunque può essere sospettato di essere un terrorista, quindi deve accettare di sottoporsi a controlli “per motivi di sicurezza”: «alla fine, l’individualizzazione della guerra porterebbe alla morte della democrazia» (Beck, citato, pp. 24-25). Di più: l’impossibilità tecnica di monopolizzare tali armi destituisce di senso il paradigma “securitario” della politica moderna. Il Leviatano torna ad essere «un mostro tra gli altri mostri» della palude. Se fallisce, perché diventata “tecnicamente impossibile”, «l’immunizzazione della società dalla violenza attraverso la sua appropriazione totale» da parte dello stato, allora «non c’è più alcun motivo per riconoscere al potere sovrano la sua “sovranità”». Nella “società globale del rischio” (Beck) salta l’intero «nucleo normativo della modernità», e questa società diventa la società dell’incertezza e dell’insicurezza: c’è una «indicibilità istituzionale» e discorsiva dei reali pericoli, che restano invisibili se non mediati, per la loro forte valenza tecnica, da “esperti”. Così scompare tutta la sicurezza della “prima modernità”. Il “paradigma politico dei moderni”, che aveva preteso di manipolare tranquillamente il negativo (violenza, distruttività, componenti del “terrore”), certo di saperlo orientare razionalmente verso esiti voluti, si trova ora «ridicolizzato». «Il gioco del potere “moderno” – se non innovato alla radice – rischia di somigliare sempre più a un tragico esercizio di apprendisti stregoni» .
Cioè, l’arma che sta per scoppiare in mano, va deposta per tempo, con una cultura e un’idea della politica che sia disarmo.
Scrive Francesco Vignarca: «La maggiore preoccupazione è che la privatizzazione della guerra e la diffusione delle compagnie militari private possano essere legittimate, divenendo una scelta politica di fondo, senza passaggi condivisi e quasi solo “per osmosi”. […] C’è da temere che gli stati in declino possano cedere in blocco alcuni pezzi di sovranità e inizino a pensare che per alcuni aspetti sia meglio abbandonare una gestione diretta – e per questo, in ultima analisi, democratica – per favorire, al contrario, un regime di azione privato ipoteticamente più conveniente, forse solo in termini monetari».
Forse - continua Vignarca – è già passata l’era, prevista, di nuove compagnie di ventura e viene il pericolo di nuove compagnie coloniali, di un «neocolonialismo multinazionale». Gli Stati, dopo aver pensato di servirsi di queste entità belliche private, potrebbero scoprirsi di colpo «semplici strumenti nelle mani di una nuova forma di potere: transnazionale, de-territorializzata e soprattutto di natura finanziaria e commerciale». «Il pericolo grave […] è che le conseguenze, inconsapevolmente, le subiranno soprattutto le popolazioni di tutti gli angoli del mondo, le quali, oltre a trovarsi immerse in un conflitto permanente e globale, non sapranno nemmeno più a chi rivolgersi per chiedere spiegazioni, dare responsabilità o cercare di cambiare le cose» .
È facile dire che la privatizzazione della guerra, se è un pericolo intollerabile, va combattuta con provvedimenti più rigorosi di disarmo dei privati: le armi leggere dovrebbero essere vietate come il maneggiare e commerciare veleni. Le armi pesanti dovrebbero essere vietate come strumento di strage evidentemente premeditata e predisposta, colta in flagranza.
Ma gli stati possono vietare la guerra che fanno loro stessi per interposti banditi mercenari?

Guerra privata, non “pubblica”, è anche il terrorismo. A parte il problema della sua definizione incerta, ma possibile, il più importante problema è: come disarmarlo? Possiamo accennare, in modo del tutto schematico, a qualche grande linea d’azione che la comunità degli stati dovrebbe seguire:
- non armarlo prima, per servirsene, e poi trovarselo rivoltato contro;
- non dimostrare, contro ogni principio giuridico internazionale, che chi ha la forza ha anche ragione, perché questa è la stessa logica del terrorismo;
- non aggiungere armi ad armi, non competere in violenza, perché ciò alimenta la violenza selvaggia;
- tagliare le fonti finanziarie, in cui si è complici:
- cercare canali per parlare, anche trattare, con i gruppi terroristici, come via per riportarli dal muto colpire a-umano al parlare umano, sebbene conflittuale;
- il disconoscimento e isolamento popolare toglie al terrorismo la sua ragion d’essere, che non è principalmente nel terrorizzare, ma nella pretesa di interpretare l’esasperazione popolare per le ingiustizie; se il popolo impara la lotta politica e nonviolenta sterilizza il terrorismo organizzato.

VIII - Conclusione
Unico disarmo radicale ed efficace sarebbe il cambiamento culturale del concetto di politica e di conflitto. Non è impossibile: la cultura della violenza è cambiata nel tempo. Sono cresciuti gli strumenti della violenza, ma è meno accettabile la violenza diretta, manuale, corporale, un tempo esibita, oggi occultata; la violenza diretta è sempre più “delegata” alla tecnica e ai “professionisti”, e sta diventando meno gloriosa in sé stessa e soltanto funzionale alla violenza strutturale del dominio economico e giuridico. La violenza culturale, esercitata nei media manipolati, e l’ideologia della violenza come insuperabile fattore decisivo delle relazioni umane, continua ad avallare disperatamente – cioè senza speranza, rinunciando alla possibilità di un mondo umano diverso – le violenze dirette e quelle strutturali, condannandosi a ripeterle. Il problema del disarmo è problema di concezione dell’uomo, di quale antropologia accettiamo o cerchiamo, è la ricerca dell’”uomo inedito”, nascosto dentro l’attuale “uomo edito” (Ernst Bloch, Ernesto Balducci). Sulla base di questa ipotesi, che è una scommessa a favore della vita e di un futuro umano, e in obbedienza all’imperativo categorico formulato da Hans Jonas , Ernesto Balducci poteva dire, come un’eco di Isaia: «Verrà il giorno che gli uomini si vergogneranno di avere costruito le armi».

Un disarmo costruttivo, nelle sue varie forme, non è la resa alla violenza armata, non è elusione del conflitto, ma processo che trasforma il conflitto, togliendone la gestione e la decisione alla forza non-umana delle armi che uccidono, minacciano e dividono, per affidarla a parole e gesti umani: alla parola che mette in comunicazione e cerca le soluzioni più razionali, condivisibili e costruttive; a gesti che depongono la minaccia e creano possibilità di fiducia.
Il disarmo sottrae il conflitto alla legge eliminatoria e sommaria della morte artificiale, per affidarlo alla logica paziente, protettiva e costruttiva della vita.

** ** **

Appendice A (Historia Magistra, 10 febbraio 2005, Disarmo)

Convegno "Nuovo modello di difesa italiano" Torino, 1 giugno 2000

DENUNCIA
DEL NUOVO MODELLO DI DIFESA
La difesa di un paese civile ed umano deve rispondere ad alcuni requisiti inderogabili. Che cosa difendere? E come?
Che cosa difendere? Non ci sono più patrie separate, la sorte umana è ormai unica, la difesa dalle aggressioni deve essere globale, comune. E poi, non ogni difesa è lecita: lo è solo la difesa dei diritti umani, comuni a tutti, non quella del dominio di una parte, degli interessi stabiliti sul privilegio e l'esclusione. La difesa di una situazione di ingiustizia non è difesa, ma offesa continuata.
Come difendere un popolo, la sua terra, le sue istituzioni? Non è sempre lecita la difesa militare, che uccide esseri umani ed espone il cittadino ad ammazzare e ad essere ammazzato. Solo altre vite, non un interesse, non un potere, valgono una vita umana. Il monopolio della difesa dato alle forze armate indebolisce la società, resa dipendente dall'esercito, istituzione separata che si fonda sul segreto e sulla gerarchia autoritaria, che può mancare lo scopo a carissimo prezzo (in ogni guerra c'è un esercito sconfitto), che ha un potere mortale usabile a fini eversivi (la storia di troppi paesi lo dimostra in sovrabbondanza). Un esercito non può assicurare la pace, perché la vittoria militare (sempre aleatoria) non dà mai la pace, ma è solo l'anello di una faida, ed è gravida di altra guerra, senza dire dei rischi odierni delle armi totali.
Per questi motivi, non solo il pensiero pacifico, ma la Costituzione (art. 52) affidano la «difesa della Patria» anzitutto ad ogni cittadino, come capacità propria del popolo. La Corte Costituzionale (sentenza n.164/1985) afferma che il dovere di difesa può adempiersi in modo armato o non armato, perché esso «trascende e supera» la difesa militare. E' un riconoscimento delle possibilità della Difesa Popolare Nonviolenta, che non è solo un bell'ideale, ma una reale capacità dei popoli, quando ne sono consapevoli, attuata in molti casi storici con efficacia, nonostante l'impreparazione, persino di fronte al nazismo, anche se finora troppo poco indagata dagli storici, condizionati dall'atavica visione militarista dei conflitti. Posso fornire ampia bibliografia storica a chi me la richiede. Sono oggi Difesa Popolare Nonviolenta, p. es., sia il servizio civile degli obiettori che rifiutano l'addestramento alle armi, sia ogni forma di volontariato nella tutela sociale dei deboli o nella solidarietà tra i popoli.
Ora però, senza che né il parlamento ne abbia mai discusso e deliberato, né il popolo sovrano ne abbia preso adeguata coscienza, si sta attuando in Italia una riforma dell'esercito che tradisce il concetto costituzionalmente legittimo della difesa. I governi che si sono succeduti dal 1991, compreso quello dell'Ulivo e quelli di centro-sinistra, tentano di elevare progressivamente a legge il c.d. "Nuovo modello di difesa" (NMD). Si tratta di un progetto del Ministero della difesa, distribuito ai parlamentari nell'ottobre 1991, contenuto in un libro bianco di 251 pagine, dal titolo Modello di difesa. Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni '90. L'impostazione concettuale non è sostanzialmente modificata ma ribadita dall'Aggiornamento pubblicato nel 1993 dallo Stato Maggiore della Difesa.
Tutta la "filosofia" di quel progetto è apertamente dichiarata nelle prime 70 pagine. Vi si dice che, caduto il muro Est-Ovest, il nuovo confronto è nell'area mediterranea «tra una realtà culturale ancorata alla matrice islamica ed i modelli di sviluppo del mondo occidentale» (p. 15-16). Là è il nuovo nemico, il nuovo conflitto economico-religioso!
Il pericolo attuale, secondo il NMD, sta nelle tendenze «al sovvertimento delle attuali situazioni di predominio regionale, anche per il controllo delle riserve energetiche esistenti nell'area» (p. 21). Quindi si vuol difendere un predominio! Tutto un paragrafo (pp. 27-33) equipara i concetti di "interessi nazionali" e di "sicurezza", che sono ben differenti: il primo indica un'attività speculativa ed espansiva, il secondo una realtà vitale minima. Solo questo è un diritto, solo esso potrebbe, nella concezione tradizionale e costituzionale, compatibile con l'eguale diritto degli altri popoli, giustificare una difesa militare.
Invece, il NMD afferma senza pudore che finalità della difesa è, dopo la salvaguardia dell'indipendenza e dei confini, la «tutela degli interessi nazionali, nell'accezione più vasta di tale termine, ovunque sia necessario» (p. 30). Non per nulla la Guerra del Golfo (confessata così come guerra di interessi e non di princìpi!) è presa come l'«esempio emblematico» del nuovo concetto di difesa (p. 44).
Potrei portare molte altre citazioni a ribadire l'idea che regge tutto il progetto: non la difesa di diritti umani, ma di uno stato di fatto, che abbiamo "interesse" a mantenere. Si parla di sicurezza internazionale, in realtà si difende con la ferocia delle armi la violenza strutturale del Nord sul Sud. L'esercito italiano diventa un corpo di spedizione neo-coloniale.
Perché dobbiamo rifiutare quel punto cardine del NMD che è l'esercito professionale (pur con problemi che restano da discutere)? Non solo per i maggiori costi innegabili, ma soprattutto perché, in questa ipotesi, la guerra non è più un'eventuale tragica necessità (che può presentarsi se non si predispongono mezzi nonviolenti di soluzione dei conflitti), ma una funzione normale; non è più ripudiata, come fa la nostra grande Costituzione, ma legittimata. Quello delle armi diventa un lavoro, una professione riconosciuta, come quella del boia: l'arte e la tecnica dell'uccidere per incarico, da mercenari. E' ancora in grado il nostro popolo di vedere e rifiutare questa vergogna?
Chi ha concepito quel progetto ha una mentalità estranea e opposta ai valori umani che stanno a fondamento della nostra Costituzione, alto frutto delle sofferenze e della riconquistata dignità dopo il fascismo e la guerra, nel ripudio della politica violenta.
Enrico Peyretti
e.pey@libero.it

(Questa scheda è la riduzione di un paragrafo del libro La politica è pace, ed. Cittadella, Assisi 1998, pp. 153-158)

Post scriptum - Analisi ben più ampie e dettagliate del Nuovo Modello di Difesa, sono state compiute anche da me negli anni successivi al 1991, e pubblicate su vari fogli impegnati. Indico soltanto: Quale nemico? Quale difesa?, in il foglio n. 215, dicembre 1994, e uno precedente, più ampio, in Tempi di fraternità, Torino, n. 5, 1993. Per il carattere internazionale di queste politiche di difesa, si veda Germania. Intervento verso l'ignoto, in Guerre e pace n. 18, aprile 1995 (tradotto da Der Spiegel, 13 febbraio 1995). Per una critica da parte militare, M. Dattolo, Lo stato democratico alla prova del nuovo modello di difesa, in Testimonianze n. 375, maggio 1995, pp. 81-87.
Tra i libri, sono da segnalare: U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'impero. Dalle direttive del Pentagono al Nuovo Modello di Difesa. Presentazione di R. La Valle, Ed Cultura della Pace, Fiesole 1992; AA. VV., Nuovo ordine militare internazionale. Strategie, costi, alternative. Ed. Gruppo Abele, Torino 1993.


Appendice B (Historia Magistra, 10 febbraio 2005, Disarmo)
Bozza sintetica di proposte politiche avanzate dalla cultura della nonviolenza
(26 dicembre 2004)
C:\Documenti\lettere\prodi\04 12 25 scheda politica di pace.doc

Abbozziamo qui, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune proposte politiche che si richiamano al “programma costruttivo” che Gandhi voleva che accompagnasse sempre il rifiuto della violenza.

Politica estera - Secondo l’analisi di Luigi Bonanate (La politica internazionale tra terrorismo e guerra, Laterza, Bari 2004) nell’ultimo decennio la politica estera è sempre più diventata “politica interna del mondo” ed è difficile distinguere tra interno ed esterno. Comunque, in politica estera nel senso tradizionale, possiamo ravvisare due principali priorità.
1) La riforma delle Nazioni Unite in senso popolare, assembleare, democratico, come proposto da vario tempo in sedi e da autori autorevoli, perché possano adempiere il loro compito di istituzione giuridico-politica planetaria per la soluzione pacifica dei conflitti e l’effettiva messa al bando della guerra.
2) La progettazione della transizione graduale dall’attuale modello di difesa, strutturalmente aggressivo e offensivo per il tipo di armamenti, funzionale alla guerra, produttore di guerra e di insicurezza, alla Difesa Popolare Nonviolenta (DPN). La fase intermedia di questa transizione (transarmo) vedrà convivere forme di difesa ancora militare ma strettamente difensiva per il tipo di armamenti non minacciosi, con la nascente DPN e con la costituzione dei Corpi Civili di Pace (CCP; proposta Alex Langer nel Parlamento Europeo), di cui già oggi esistono molteplici esempi spontanei, dal basso, coordinati dalla Rete dei CCP (www.reteccp.org ).
Politicamente, questo significa riduzione programmata delle spese militari, riconversione dell’industria bellica e degli eserciti. E’ la tanto auspicata politica minima del 5%: ogni anno, per un’intera legislatura, e poi per quelle a venire, spostare il 5% del bilancio militare sulla alternativa «difesa non armata e nonviolenta» (Legge 230/98, art. 8-e). Se non si programma in termini finanziari e organizzativi la pace come metodo nella gestione dei conflitti, si resta nell’aria fritta della retorica della pace. Oggi stiamo andando esattamente nel vecchio senso disastroso, tanto in Italia quanto nella UE, la quale dovrebbe scegliere la strada del transarmo e della neutralità attiva, disarmata, solidale e nonviolenta.

Politica interna - Individuiamo almeno tre principali priorità.
1) Progettare la transizione dall’attuale modello di sviluppo ad alta intensità energetica e di potenza, con un impatto ambientale insostenibile, a un modello a bassa potenza, centrato sull’uso di fonti energetiche rinnovabili, sul risparmio e l’efficienza energetica e su uno stile di vita e consumi ispirato alla semplicità volontaria e alla maggior gioia di vivere che ne deriverebbe. Anche in questo caso, uscire dalla retorica significa programmare la riduzione annuale del 5% dei consumi di combustibili fossili e l’incremento, nella stessa percentuale, delle fonti alternative. Il recente lavoro di Hermann Scheer (Il solare e l’economia globale, Edizioni Ambiente, Milano 2004) è l’esempio più concreto di tale possibilità.
2) La promozione e diffusione della cultura della nonviolenza attiva in ogni campo: da quello mediatico a quello educativo, da quello accademico (con la rottura dei paradigmi dominanti) a quello dell’immaginario collettivo (artistico, musicale, progettuale, urbanistico). Questa è un’azione capillare dei movimenti nonviolenti, che continua in un leggero crescendo, ma occorre farne una priorità nei confronti di quella stragrande quantità di cittadine e cittadini che attendono un messaggio chiaro per uscire dall’apatia e dalla rassegnata disperazione passiva davanti alla imponente violenza bellica, economica, culturale.
3) La qualità delle relazioni tra persone, generi, generazioni. Il vecchio slogan femminista «il personale è politico» è quanto mai attuale: senza “l’altra metà del cielo” non avviene nessuna evoluzione nonviolenta. Di fronte al “potere senza volto” del maschilismo, delle tradizioni violente ereditate dal passato, della mafia e del capitalismo, lottare è più difficile che davanti al potere che ha un volto ed è concentrato in gruppi più facilmente identificabili. Eppure, è proprio la violenza culturale, la più profonda e grave, che va affrontata e scalzata per liberare progressivamente la vita sociale dai suoi effetti: le violenze strutturali, causa di sofferenze profonde, e quelle direttamente omicide.

Scheda - Dati sulle armi
INIZIATIVE. NO AL COMMERCIO DELLE ARMI.
UNA GIORNATA DI SENSIBILIZZAZIONE
Da "La nonviolenza è in cammino" nbawac@tin.it , n. 837 , 11-2-2005.

[Dalla segreteria della Rete Lilliput (per contatti:
mservettini@lillinet.org ) riceviamo e diffondiamo]

*
Alcuni dati
Ogni giorno, milioni di donne, di uomini e di bambini vivono nel terrore della violenza armata; ogni minuto, uno di loro resta ucciso. Ogni anno in Africa, Asia, Medio Oriente e America latina si spendono in media 22 miliardi di dollari per l'acquisto di armi, somma che avrebbe permesso a
questi paesi di ridurre la mortalita' infantile e materna (cifra stimata: 12 miliardi di dollari l'anno) ed eliminare l'analfabetismo (cifra stimata: 10 miliardi di dollari l'anno). Il totale delle spese militari mondiali in un anno e' di 956 miliardi di dollari, mentre la spesa complessiva (in 11 anni)
per raggiungere gli obiettivi del millennio per lo sviluppo sarebbe di 760 miliardi: si raggiungerebbero spendendo solo il 10% in meno in spese militari all'anno.
*
L'Asia
In tutta la regione oltre il 50% delle armi viene venduto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, mentre solo 8 miliardi di dollari sono inviati in queste zone come aiuti ufficiali allo sviluppo. L'Asia e' al secondo posto, dopo il Medio Oriente, come maggiore acquirente di armi convenzionali, secondo fonti del Dipartimento di Stato americano nel biennio
1990-2000 la regione ha comprato armi per un valore di 130 miliardi di dollari. Inoltre:
- Corrisponde al 100% il livello di militarizzazione dal 1994 al 2001;
- Il 52% della popolazione non ha accesso alla sanita';
- Il 23% dei ragazzi e il 39% delle ragazze e' analfabeta;
- e' del 50% la percentuale di bambini con meno di 5 anni sottopeso;
- sono 284 i milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno.
*
L'Africa
Sono 7 milioni le armi leggere circolanti in Africa occidentale e oltre 30 milioni le armi leggere circolanti in tutta l'Africa, almeno una ogni 20 abitanti. L'80% di queste armi e' in mano a civili; e' del 47% l'aumento delle spese militari dell'Africa Sub-Sahariana dal 1995 al 2001.
*
Gli aiuti allo sviluppo.
Il totale degli aiuti allo sviluppo erogati nel 2002 dai paesi del comitato assistenza sviluppo Ocse e' di 58 miliardi di dollari, contro i 192 miliardi di dollari di vendite totali di armi delle cento maggiori compagnie mondiali.
La spesa pro capite per aiuti allo sviluppo in Europa (nel 2002) e' di 61 dollari per ogni cittadino contro 358 dollari a testa in spese militari.
La spesa complessiva per il Progetto di Sviluppo del Millennio e' di 760 miliardi di dollari contro 1.200 miliardi di dollari del progettato Sistema Difensivo di Missili Balistici Usa.
*
Per contatti: - Francesco Vignarca, Segreteria Rete Disarmo, tel. 3283399267, e-mail: segreteria@disarmo.org
- Paolo Chiavaroli, presidente Agices, tel. 3356914928, e-mail: presidenza@agices.org
- Marco Bindi, Assobotteghe, tel. 3204398967, e-mail: wymarco42@supereva.it
Il materiale di approfondimento e' disponibile nel sito www.disarmo.org
L'elenco botteghe aderenti in Italia e' disponibile nello stesso sito.

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