L'Innovazione e l’open source dimenticato

Qualcuno ha notato qualche sensato riferimento al software libero nel Rapporto sull'Innovazione Digitale presentato dal ministro Stanca? No. In cambio si parla di Smart Dust
24 ottobre 2003
Lorenzo Campani

Roma - Consolazione: alla fine, non c’è andato di mezzo qualche albero. La coscienza ecologica è salva. Merito del PDF, che per i più sprovveduti non è il Partito delle Foreste. Per il resto, una moka da caffè strapiena e musica punk per i momenti critici. Cos’è ? E’ l’armamentario per affrontare le 158 pagine del recentissimo Rapporto sull’Innovazione Digitale che a dirla tutta e con sincerità non si legge d’un fiato come l’ultimo bestseller. Anzi.

Eppure qualcosa prometteva. Il ministro Lucio Stanca faceva buon marketing con quelle dichiarazioni che sembran fatte apposta per finire battute sulle agenzie: “i due terzi degli italiani sono analfabeti informatici”. Finalmente qualcuno che le canta chiare, che dice pane al pane vino al vino, senza facili ottimismi. Non che al ministro non piaccia declamare qualche successo. Tempo prima al Financial Time aveva detto: “l’80% dei dipendenti pubblici ha un computer”. Incastrando le dichiarazioni i casi sono due: o i dipendenti pubblici sono molto bravi e fuori media, oppure in giro per gli uffici ci sono parecchi soprammobili.

In verità l’uscita sull’analfabetismo nel rapporto non c’è. Parrebbe una libera e sintetica interpretazione del ministro per la cortese platea di convenuti al Senato. C’è però molto altro.

C’è l’equazione più ricerca uguale più crescita economica e sociale, che da anni non manca in rapporti, conferenze, convegni e buffet, salvo restare sistematicamente al palo quanto si tratta di mettere le mani in tasca e sganciare la paghetta.

C’è la constatazione delle potenzialità trainanti del settore delle tecnologie digitali per tutta l’economia e del ritardo congenito dell’Italia in questo settore rispetto al resto della compagine europea e occidentale. Ma - tranquilli - quello era il passato, adesso è tutta un’altra storia.

Ci sono quattro pagine quattro per spiegare quanto ci cambierà la vita la Smart Dust, “la polvere intelligente”, roba parecchio futuristica. Vien da pensare che se il rapporto è annuale, fra dodici mesi potrebbero metterci il teletrasporto del capitano Kirk.

C’è la beatificazione della TV digitale terrestre come rivoluzione nel settore della comunicazione (qui ci dev’essere lo zampino del ministro Gasparri), che però ad oggi fa 0 utenti o giù di lì (e li farà per parecchio) mentre non c’è da spendere nemmeno una mezza parola smozzicata per un fenomeno diffuso come i blog che di innovazione nel settore della comunicazione, ma anche della tecnologia, ne stanno portando.

C’è tanto altro, troppo per raccontarlo qui. Anche cose buone come le politiche per l’accessibilità.

Ma scavalcando qua e là soporifere divagazioni, dribblando criptici anglicismi in stile “empowerment degli individui” o autarchiche mutazioni di acronimi (TIC al posto di ICT), decifrando chiarissimi grafici che neanche la stele di Rosetta, rimane una sensazione di vuoto, di non detto, come quando parti e ti picchietta nelle meningi che hai dimenticato qualcosa a casa.

Quel qualcosa è “l’open source” o meglio ancora il “software libero”. Non che ci dovesse essere un posto in prima fila, per carità, che il settore è ancora, in Italia, piccolino (però in forte crescita), ma almeno un cantuccio, un accenno, una citazione.

Perchè parlare di innovazione digitale, cioè di roba che in fin dei conti ha a che fare con degli zero e degli uno e ignorare l’open source è un po’ una bestemmia.

Bastava poco del resto. Uscire dalla stanzetta e bussare alla porta accanto dove il professor Angelo Raffaele Meo, presidente della Commissione d’indagine sull’open source avrebbe detto che “è il simbolo e il fondamento di una nuova rivoluzione tecnologica”. Parole sante.

Ma tant’è, nel rapporto di questa rivoluzione non c’è traccia. Si ha quasi la sensazione che spesso in tema di software libero ci si impantani in un dato puramente economico ricadendo nel vecchio quiproquo: free speech, not free beer. Insomma che si punti più che altro alla birra gratis.

Può essere un’omissione non voluta, una innocente distrazione, ma può essere anche un calcolo ben poco disinteressato. Sì, perchè il giorno in cui si comincerà a riflettere e a prendere in considerazione seriamente il movimento del free software, si dovrà anche arrivare alla conclusione che non stiamo più parlando solamente di linee di codice o di una percentuale del mercato dei server. Stiamo parlando di un nuovo modello per ideare, creare, produrre, distribuire, usare. Di un nuovo modo di concepire l’innovazione, più efficiente e più giusto. Un modo nuovo che fa un po’ tremare i polsi a quelli che oggi si arrabattano per campare di brevetti e copyright sempre più famelici ed immortali.

Se come dicono quelli bravi “le tecnologie digitali ormai pervadono la vita quotidiana” si capisce bene che l’impatto del modello open source potrebbe fare un bel botto. Un botto che può coinvolgere molti paradigmi consolidati dell’economia, dello sviluppo, della società, della democrazia. Qualcosa in più, insomma, di una semplice birra a scrocco.

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