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Un patto di convivenza tra copyright e copyleft

Accordo tra «Creative Commons» e Microsoft per scrivere testi con software sotto copyright. Ulteriore segnale della formazione di un sistema misto sulla proprietà intellettuale
23 giugno 2006
Benedetto Vecchi
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Il primo a sottoscrivere l'accordo tra Creative Commons e Microsoft è stato il ministro della cultura brasiliano Gilberto Gil nella giornata inaugurale del summit internazionale iCommons iSummit. Già l'annuncio dell'intesa aveva suscitato le dichiarazioni entusiaste del giurista Lawrence Lessig (il manifesto del 22 giugno), secondo il quale l'accordo è una svolta nel mondo della proprietà intellettuale. Stessa soddisfazione tra i dirigenti della Microsoft, che da Redmond mandano a dire che è iniziata, dopo il periodo della contrapposizione, l'era della collaborazione tra due approcci finora antitetici sul copyright e sui brevetti.
Dichiarazioni e entusiasmi davvero esagerati per un accordo che prevede solamente che un testo scritto o una tabella elettronica costruita con uno dei software del «pacchetto» Office può essere «marchiato» con una delle licenze Creative Commons. E' sicuramente inutile ricordare che Microsoft è da sempre un paladino del copyright in quanto diritto proprietario dell'impresa su un manufatto digitale, ma non è noto a tutti che i Creative Commons sono stati inventati da Lawrence Lessig affinché un testo, un file musicale, un video potesse essere essere manipolato, modificato o, come sostiene il giurista statunitense, «remixato» garantendo però il riconoscimento simbolico del diritto dell'autore che gli aveva dato quella forma, quello stile, quel contenuto iniziale. In una intervista Lessing aveva inoltre sostenuto che i Creative Commons sono l'equivalente della licenza Gpl (General public licence) per ogni «manufatto culturale».
Da questo punto di vista, l'accordo siglato nei giorni scorsi può essere considerato l'incontro tra il diavolo (la Microsoft) e l'acqua santa (i paladini della condivisione della conoscenza). Un incontro, però, in cui nessuno è tenuto a rinunciare alle proprie convinzioni: entrambi, stabilendo un patto di convivenza, riconoscono legittimità all'altro di sviluppare i propri prodotti come meglio crede. Ovviamente, ognuno dei due partecipanti all'accordo sostiene le sue ragioni.
Lawrence Lessig e Gilberto Gil affermano infatti che, visto che esistono centinaia di milioni di utenti di «Office», i Creative Commons potranno essere conosciuti da un pubblico esteso e che molti di loro potranno usufruire liberamente di un'alternativa delle norme dominanti sul copyright. Dal canto suo, Microsoft vede nell'accordo un'investitura di legittimità da parte di un mondo fino a ieri ostile, se non nemico.
Ma al di là della portata dell'accordo, la sua ratifica è un ulteriore segnale che le acque già agitate della proprietà intellettuale conoscono un ulteriore sommovimento. E' da circa un anno che, sia a livello internazionale che locale, sono in atto movimenti di non poco conto. Ad aprire i «giochi» ci hanno pensato il Brasile, la Cina, l'Argentina e l'India, che hanno chiesto, finora con poco successo, all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) di aprire un tavolo di lavoro sulle forme alternative di tutela della proprietà intellettuale. In nome della difesa della biodiversità, del diritto all'«autonomia» dal potere delle multinazinali o delle «vie nazionali» allo sviluppo economico, i tre paesi emergenti del capitalismo globale hanno individuato nelle modalità di sviluppo
open un'alternativa ai trattati internazionali sul commercio della proprietà internazionale del Wto, considerati dei dispositivi legislativi che favoriscono i soliti noti, cioè le imprese multinazionali statunitensi.
Ma se il Wto è rimasto tiepido, l'organizzazione internazionale sulla proprietà intellettuale (Wipo) ha invece dedicato non pochi meeting di studio sulle licenze Gpl o sui Creative Commons, arrivando anche a ospitare Richard Stallman nella sua sede ginevrina. A livello nazionale, invece, sono stati molti i paesi - in Europa, America latina e in Asia - che hanno scelto software
open source per la pubblica amministrazione da affiancare a quello proprietario. Poi sono arrivate le sorpendenti dichiarazioni di Linus Torvald sulla compatibilità di Linux e i Digital Rights Management in nome della «neutralità» della computer science e dell'efficienza del suo sistema operativo. Segnali che indicano una direzione di marcia verso un «sistema misto» della proprietà intellettuale che, se ancora non ha avuto ratifiche istituzionali, si sta imponendo nella realtà.
D'altronde nel mainstream del pensiero economico sta prendendo piede un punto di vista che potrebbe essere così riassunto: producete i vostri software o libri o dischi o video come volete, ma poi sta alle imprese che si muovono secondo una stringente logica di costi e ricavi gestirli e distribuirli per fare profitti. E se si moltiplicano le prese di posizioni di artisti musicali, di scrittori a favore dei Creative Commons, mentre il software open source si diffonde fino a insidiare seriamente il monopolio di Microsoft, le imprese capitalistiche stanno modificando la loro organizzazione per «accogliere» quel variegato mondo produttivo e sociale che risponde alla cosiddetta «economia del dono».
Alcuni anni fa lo studioso finlandese Pekka Himanen si domandava se l'etica hacker potesse, nel futuro, diventare lo spirito del capitalismo. Con azzardo si può già rispondere a quel quesito. L'etica hacker è già lo spirito del capitalismo.

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Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose a cui può permettersi di rinunciare.

H. D. Thoreau

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