Vulcano Kosovo, rumori di eruzione
Le notizie che, in queste ore e per tutto il mese di dicembre, si sono rincorse dal Kosovo - cadute impietosamente nel silenzio di tutta la stampa italiana attenta alle ceneri del fallimento della guerra preventiva in Iraq - preannunciano una prossima esplosione del «vulcano» Kosovo. Il leader militare delle milizie dell'ex Uck, Ramush Haradinaj è diventato primo ministro negli stessi giorni in cui era interrogato all'Aja; Belgrado ha chiesto alle Nazioni unite e all'amministrazione Unmik della regione di destituirlo «immediatamente» altrimenti saltano i negoziati del 2005; la Nato, preoccupata, ha avvisato che «se incriminato deve dimettersi»; Carla Del Ponte, procuratore del Tribunale dell'Aja - dove l'abbiamo raggiunto telefonicamente - ha già annunciato un provvedimento d'accusa contro leader albanesi del Kosovo; dulcis in fundo, la Chiesa ortodossa serba, di fronte al definitivo rifiuto dello stesso Tribunale dell'Aja di processare i leader della Nato per i bombardamenti indiscriminati contro i civili nel 1999 - «perché non ha competenza sul caso non essendo la Federazione jugoslava al momento della denuncia ancora membro dell'Onu» -, rilancia denunciando al Tribunale di Strasburgo l'Alleanza atlantica per la sua inadempienza nella vigilanza dei monasteri devastati in terra kosovara in questi 5 anni dopo la guerra. Siamo sul crinale del 2005, l'anno della verifica degli accordi di pace di Kumanovo del giugno 1999 che posero fine alla campagna di bombardamenti «umanitari» della Nato, che per 78 giorni devastarono l'allora Federazione jugoslava con migliaia di vittime civili e tanti, irraccontabili, effetti collaterali. Il risultato è stato un protettorato militare, consegnato dall'esercito di Belgrado alle truppe atlantiche, con l'obbligo di salvaguardare la minoranza serba. E' stata una litania di stragi e disastri: 1300 serbi rom e albanesi moderati uccisi, altrettanti desaparecidos, si è avviata una contropulizia etnica sotto gli occhi «vigili» della Nato che ha portato alla fuga 200.000 serbi e alla distruzione di 150 chiese e monasteri ortodossi. Un protettorato Nato amministrato dall'Onu che, con i suoi amministratori, ha di fatto avviato la regione - secondo quegli accordi di pace ancora parte integrante della Serbia - verso una deflagrante indipendenza.
Questi i fatti, fino all'esplosione dei pogrom di marzo e poi alle elezioni etniche ma avallate dalla comunità internazionale, dove non hanno votato per protesta i pochi serbi rimasti e dove i kosovaro-albanesi che sono andati alle urne sono stati meno della metà degli aventi diritto. Ha vinto, ma senza la maggioranza, l'Ldk di Ibrahim Rugova che, per governare e per scambio di favori politici, si è alleato con il settore peggiore dello schieramento albanese, vale a dire Ramush Haradinaj, leader militare dell'Uck e responsabile di efferati crimini contro civili serbi addirittura prima della guerra «umanitaria» della Nato. Haradinaj alla fine, nello sconcerto generale in Kosovo e nello stupore della comunità internazionale, è diventato all'inizio di dicembre primo ministro.
«Rugova ci ha stupiti», ci dice al telefono il procuratore del Tribunale dell'Aja Carla Del Ponte, «non dico altro, non parlo di politica, ma lo stupore è stato forte». Parla dell'inaspettata elezione a Pristina come premier di Haradinaj, proprio nei giorni del suo interrogatorio al Tribunale penale internazionale - che Haradinaj ha minimizzato: «è stata un'intervista» -; e soprattutto nei giorni in cui la Del Ponte ha autorizzato l'arresto e il trasferimento al tribunale di tre luogotenenti dell'Uck che erano alle dipendenze dello stesso Haradinaj: il processo contro di loro si è aperto il 15 novembre, i tre sono accusati di «uccisioni, trattamenti crudeli, atti disumani» commessi nel 1998 e nel 1999 contro civili serbi e albanesi moderati, detenuti nel campo di concentramento aperto dalle milizie dell'Uck nella località di Lapushnik. Carla Del Ponte racconta di vivere letteralmente barricata dentro il Tribunale, dove oggi si svolgerà una protesta di estremisti kosovaro albanesi, e ci conferma: «pronti, a fine anno, tra pochi giorni, 6 o 7 capi d'accusa contro la leadership dell'ex Uck». Quanto al timore che la nomina a premier possa essere stata fatta proprio per impedire l'iniziativa penale del Tribunale internazionale, Del Ponte risponde: «Il fatto che si tratti di un premier non costituisce assolutamente per noi motivo di impunità».
La protesta per questo atteggiamento di Rugova e la nomina di Haradinaj è partita subito dai banchi del «parlamento» kosovaro, dal moderato Veton Surroi che ha stigmatizzato l'«operazione di scambio», denunciando che una tale coalizione «prepara solo nuove crisi di governo, non sarà in grado di gestire le sfide del negoziato del 2005».
Naturalmente le proteste più forti sono venute da Belgrado dove il premier serbo Vojslav Kostunica ha definito la nomina di Haradinaj «una provocazione» chiedendo subito all'Aministrazione Onu-Unmik della regione di destituire Haradinaj e ricordando il doppio standard della Bosnia dove il plenipotenziario della comunità internazionale, Paddy Ashdown, ha ripetutamente destituito ministri, premier, funzionari solo sospettati di legami con criminali di guerra. Il ministro serbo della giustizia Zoran Stojkovic ha annunciato che nel prossimo anno di negoziati, se Haradinaj si presenterà a Belgrado «sarà arrestato». L'unico disponibile a incontrare comunque Haradinaj è stato il presidente della Serbia-Montenegro, il montenegrino Svetozar Marovic, che ha suscitato la rivolta dell'opinione pubblica serba, a dimostrazione di come questa vicenda riapra inaspettatamente anche lo scontro mai sopito sul ruolo «secessionista» del Montenegro.
Ma la stessa comunità internazionale in settimana si è dichiarata preoccupata. Ha cominciato l'Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell'Unione europea, Javier Solana: «Potrebbe non essere opportuno che il garante degli standard richiesti dalla comunità internazionale per il Kosovo diventi qualcuno che magari comparirà davanti al tribunale dell'Aja». Poi è stata la volta addirittura del segretario della Nato Jaap de Hoop Scheffer che ha affermato che il premier Haradinaj, se fosse incriminato, dovrebbe dimettersi perché «c'è assoluta esigenza per lui e per il suo seguito di comportarsi responsabilmente». Perfino il neo-ministro degli esteri italiano Gianfranco Fini ha espresso su questo «diffuse preoccupazioni».
Eppure, nonostante tutti questi diffusi e motivati timori per una vicenda che nell'area potrebbe reinnescare la guerra - come ha dimostrato l'anno e mezzo di guerra civile in Macedonia, dopo il Kosovo e come dimostrano i tanti, troppi ritrovamenti di armi fatti anche dai militari italiani impegnati in questo e nello sminare dalle cluster bomb il territorio che «noi» abbiamo bombardato - l'amministratore Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni richiesta, dichiarando che la destituzione «non sarebbe democratica». Mentre arrivano troppe, allarmanti conferme sulla ricostituzione di una nuova formazione paramilitare kosovaro albanese.
E' il vulcano Kosovo. Può riesplodere a giorni, ma anche a ore. E le parti potrebbero invertirsi, dato anche il diffuso malcontento contro le promesse di indipendenza che gli europei della Nato non mantengono, a fronte invece del fortissimo quanto destabilizzante legame «culturale» e politico con l'Amministrazione Usa. Washington, prima con Bill Clinton ora con George W. Bush è già impegnata per l'indipendenza del Kosovo - uno stato zona-franca per ogni traffico malavitoso e sotto tutela degli Stati uniti che presso Urosevac hanno allestito Camp Bondsteel, la più grande base militare di tutto il sud est europeo. E in queste ore l'amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare Ramush Haradinaj solo perché è il più ricattabile e quindi più condizionabile. Ai margini del vulcano.
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Repubblica