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La sentenza del «disertore» Mejia

Colpevole.

La corte marziale condanna il sergente Camilo Mejia, che aveva rifiutato di tornare in Iraq, per diserzione e «condotta disonorevole». E' la stessa sentenza data a Sivitz, aguzzino di Abu Ghreib. «Non ho trovato una sola ragione per continuare a uccidere in Iraq», ci ha detto Mejia
26 maggio 2004
Patricia Lombroso
Fonte: Il Manifesto - 22 maggio 2004

«Guilty», colpevole. L'accusa è quella di diserzione e «Absent for omission of harassment», «assente per evitare i pericoli (della guerra)». E' stato questo il verdetto emesso ieri dai sei membri della giuria della Corte marziale a Fort Stewart, in Georgia, nei confronti del sergente Camilo Mejia. La sentenza è un anno di carcere e la radiazione per «disonorable conduct». Il sergente Mejia aveva fatto obiezione di coscienza e aveva rifiutato di «continuare a partecipare alla serie di abusi da noi perpetrati nei confronti della popolazione irachena», come ha detto al manifesto prima del processo. Paradossalmente ha ricevuto la stessa sentenza valsa per l'aguzzino di Abu Ghraib, in Iraq, Jeremy Sivitz. «Il processo al sergente Mejia è riuscito a eliminare dalla corte marziale tutte le questioni più scabrose della guerra in Iraq», ci ha detto da Fort Stewart Todd Ensign, direttore dell'organizzazione Citizen Soldiers per la protezione degli obiettori di coscienza sin dalla guerra in Vietnam. «La stampa è messa sotto silenzio, allontanati i dimostranti, le famiglie dei 7.500 soldati che non vogliono tornare in Iraq. Per l'esercito americano, il sergente Mejia è colpevole di non essere salito sull'aereo militare il 16 ottobre scorso che lo riconduceva sul campo di battaglia».

«Non ci arrenderemo. Ricorreremo in appello», incalza fuori dal tribunale Norma Montillo, zia di Mejia, tra la folla e gli striscioni «Free Camilo».

Quale che sia la sentenza per il sergente Camilo Mejia - scriveva ieri Bob Herbert in un editoriale sul New York Times - «le questioni che ha sollevato vanno prese sul serio dall'intera nazione, che finalmente comincia a emergere dalla nebbia della deliberata falsificazione su questa guerra creata da Bush, Rumsfeld, Wolfowitz e altri».

«Qui a Fort Stewart si sta processando l'uomo sbagliato», ha tuonato
in aula il suo difensore Daniel Ellsberg, il vecchio leone che con la pubblicazione dei Pentagon Papers nel 1971 aveva contribuito ad avviare la fine della guerra del Vietnam. «Si deferisce alla corte marziale il soldato Mejia per essersi rifiutato di commettere proprio i crimini che violano le convenzioni di Ginevra e di Norimberga». Non Mejia, ha detto Ellsberg, «ma Bush e Rumsfeld dovrebbero apparire davanti a un tribunale internazionale per crimini di guerra; andrebbero soggetti, costituzionalmente, all'impeachment per "alto tradimento" e violazione dei principi dettati per la presidenza». L'imputato Mejia, in aula, ha ascoltato il giudice dell'accusa gridare: «Ogni soldato che abbandona il campo di battaglia e diserta le sue responsabilità è un traditore». Ha risposto: «Essere contrario alla guerra non significa essere antiamericano. Sono stato costretto a bloccare, per sopravvivere, emozioni di orrore, sangue, disgusto per quello che stavo facendo alla popolazione irachena. Abbiamo ucciso esseri umani. Il mio rifiuto a tornare in Iraq con la mia unità è dovuto alla verità che non ho trovato una sola motivazione ragionevole per continuare ad uccidere in Iraq. Non va fatto pagare ai soldati l'onere di questa guerra illegale».

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