Conflitti

Il soldato deluso

Paul Rieckhoff non è un pacifista e non odia la guerra in generale perché è un militare volontario. Ma dopo 10 mesi trascorsi a Baghdad il suo sostegno all'amministrazione Bush non è più così incondizionato. E qualche giorno fa, in un discorso radiofonico, ha espresso tutto il suo disappunto per come la questione Iraq è stata trattata da Washington
17 maggio 2004
Paul Rieckhoff
Fonte: Peace Reporter


17 maggio 2004 - PeaceReporter ha pubblicato diverse volte lettere e altre testimonianze di persone contrarie alla guerra in generale e a quella in Iraq in particolare. Storie di chi il conflitto lo vive sulla propria pelle, di chi ha una persona cara che rischia la vita ogni giorno, o semplicemente di chi non capisce come le armi possono risolvere i problemi. Più passa il tempo, però, e più emerge il dissenso anche di chi era favorevole a invadere l'Iraq per destituire Saddam Hussein. Specialmente nelle file dell'esercito statunitense.

Paul Rieckhoff fa parte di questa categoria. Non è un pacifista e non odia la guerra in generale perché è un soldato volontario. Ma ora è stanco e deluso dall'amministrazione Bush. Qualche giorno fa ha tenuto un discorso alla radio dei Democratici che riassume tutto il suo disappunto per come la questione Iraq è stata trattata da Washington. PeaceReporter ha deciso di riportarlo, perché esemplifica un modo di pensare che sembra diffondersi sempre più tra chi la guerra la vede ogni giorno, e ne è protagonista.

IL DISCORSO
Buongiorno. Il mio nome è Paul Rieckhoff. Vi parlo da cittadino statunitense e da veterano dell’operazione Iraqi Freedom. Ho servito sotto l’esercito Usa in Iraq per 10 mesi, fino al febbraio 2004.
Sto facendo questo discorso perché ho una cosa in mente, ed è questa: voglio che i miei compagni soldati tornino a casa sani e salvi, e voglio un futuro migliore per la popolazione irachena. Voglio anche che la gente sappia la verità.

La guerra non è mai facile. Ma sono andato in Iraq perché avevo sottoscritto un impegno con il mio Paese. Quando mi arruolai come volontario, sapevo che sarei finito a Baghdad. Sapevo che lì sarebbe stato il centro di tutto, ed ero pronto per affrontarlo.
Ma quando arrivammo a Baghdad, scoprimmo subito che le persone che avevano pianificato questa guerra non erano pronte per noi. Non c’erano abbastanza veicoli, munizioni, medicinali, acqua. Per molti giorni siamo stati di pattuglia per le strade di Baghdad con quasi 50 gradi di temperatura e solo una bottiglia d’acqua per soldato. Non c’erano abbastanza protezioni antiproiettile, e i miei uomini erano così costretti a schivare le pallottole con addosso dei giubbotti risalenti al Vietnam. I nostri soldati meritavano di meglio.

Quando Baghdad cadde, scoprimmo subito che le persone che avevano pianificato questa guerra non erano pronte neanche per quel giorno. Adamiyah, l’area di Baghdad dove eravamo stati assegnati, non era stabilizzata. La popolazione irachena continuava a soffrire. E noi abbiamo dovuto fronteggiare sparatorie, uccisioni, rapimenti e furti per la maggior parte della primavera.
Abbiamo aspettato che arrivassero nuove truppe e la polizia militare per coprire la città. Abbiamo aspettato gli aiuti stranieri. Abbiamo aspettato che si facessero vivi degli interpreti, e che le linee di rifornimento venissero ripristinate. Abbiamo aspettato che arrivasse dell’acqua. Abbiamo aspettato e aspettato, mentre gli attacchi contro i miei uomini continuavano…e crescevano.
Con troppo poco sostegno e troppo poca pianificazione, l’Iraq era diventato un problema che dovevamo risolvere da noi. Ragazzi di 19 anni provenienti dagli Stati interni interpretavano la nostra politica estera, in arabo. Non eravamo stati addestrati per questo. I soldati di fanteria sono addestrati per avvicinarsi al nemico e ucciderlo.

Ma da soldati di fanteria, e da americani, ci siamo arrangiati, e abbiamo svolto il lavoro per il quale eravamo stati mandati là – e molto di più.
Il primo maggio di un anno fa, il nostro presidente dichiarò che le principali operazioni di combattimento in Iraq erano concluse. Sentimmo parlare di uno striscione con la scritta “Missione compiuta”, e lo sentimmo dire che “gli americani, dopo una battaglia, non vogliono niente di più che tornare a casa”.
Beh, ci era stato detto che saremmo tornati a casa entro il 4 luglio. Le parate e l’estate ci stavano aspettando. Avevo scritto a mio fratello a New York per dirgli di comprare i biglietti per le partite della serie Yankees-Red Sox nel Bronx. Il baseball e le nostre famiglie ci stavano aspettando.
Ma tre giorni prima della data in cui dovevamo partire, ci dissero che la nostra permanenza in Iraq sarebbe stata prolungata per un periodo indefinito. La violenza si intensificava, il pericolo persisteva, e l’instabilità cresceva. E nonostante quello che aveva detto George Bush, la nostra missione non era compiuta.

Il nostro plotone era stato lontano dalle rispettive famiglie per sette mesi. Erano nati due bambini. Tre mogli avevano fatto richiesta di divorzio e una fidanzata aveva rispedito l’anello al suo ragazzo a Baghdad. 39 uomini avevano nostalgia delle loro case. E non le avrebbero riviste per altri otto mesi.
Ma abbiamo lavorato di gruppo – ci siamo presi cura l’uno dell’altro e abbiamo continuato la nostra missione. La missione ci faceva andare avanti. La missione era di mettere l’Iraq al sicuro e aiutare gli iracheni. Abbiamo visto con i nostri occhi la terribile sofferenza che hanno dovuto sopportare.
Abbiamo protetto un ospedale e una scuola dal fuoco dei cecchini. Abbiamo visto la speranza nei volti dei bambini iracheni che potrebbero avere la possibilità di crescere liberi come i nostri. Ma aspettavamo ancora un aiuto. E invece le persone che hanno pianificato questa guerra hanno visto l’Iraq cadere preda del caos, e si sono rifiutate di cambiare il corso delle cose.

Alcuni di quelli che erano con me sono stati feriti. Uno dei miei comandanti ha perso entrambe le gambe in combattimento. Ma il nostro plotone è stato fortunato – siamo tornati a casa vivi tutti e 39. Troppi dei nostri amici e compagni non hanno avuto la stessa fortuna. Da quando il presidente Bush ha dichiarato concluse le principali operazione di combattimento, più di 590 soldati americani sono stati uccisi. Oltre 590 uomini e donne che stavano attendendo le parate, l’estate, l’aiuto.
Da quando sono tornato, ci sono due immagini che continuano a scorrermi in mente. Una è la lista delle vittime americane che mostrano ogni giorno nei telegiornali – una lista che mi ricorda che questo aprile è stato il mese con più perdite finora, con più di 130 soldati uccisi.
L’altra immagine è quella della conferenza stampa del presidente Bush due settimane fa. Dopo tutta l’attesa, dopo tutti gli errori che abbiamo potuto vedere di persona in Iraq, dopo un altro anno di una politica che non migliora affatto la situazione per i nostri amici che sono ancora laggiù, lui ci ha detto che tireremo diritto. Ci ha detto che stavamo facendo progressi. E ci ha detto che “stiamo portando avanti una decisione che è già stata presa e che non cambierà”.

I nostri soldati stanno ancora aspettando altri giubbotti antiproiettile. Stanno ancora aspettando un migliore equipaggiamento. Stanno ancora aspettando una politica che coinvolga il resto del mondo e li sollevi dal loro fardello. Stanno ancora aspettando altro aiuto.
Non sono arrabbiato con il nostro presidente, ma sono deluso.
Non mi aspetto una soluzione facile per la situazione in Iraq. Mi aspetto invece l’ammissione che ci sono dei problemi seri che richiedono soluzioni serie.
Non mi aspetto che i nostri leader non facciano errori. Mi aspetto che i nostri leader se ne assumano la responsabilità.
In Iraq, io avevo la responsabilità delle vite di altri 38 americani. Abbiamo riso assieme, abbiamo pianto assieme, abbiamo vinto assieme, e abbiamo combattuto assieme. E quando abbiamo fallito, il mio compito come loro leader era di prendermi la responsabilità delle decisioni che avevo preso – non importa quale fosse il risultato.

La mia domanda per il presidente Bush – che ha guidato la pianificazione di questa guerra così tanto tempo fa – è questa: quando si prenderà la responsabilità delle decisioni che ha preso in Iraq e capirà che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui le cose stanno andando?
Signor presidente, la missione non è compiuta.
I nostri soldati possono compierla. Possiamo costruire un Iraq stabile, ma abbiamo bisogno di aiuto. I soldati con cui ho servito sono uomini e donne di straordinario coraggio e incredibile capacità. Ma è ora di avere una leadership a Washington che eguagli il loro coraggio e la loro capacità.
Mi preoccupo per il futuro dell’Iraq e per i miei amici iracheni. Mi preoccupo per i miei compagni che stanno ancora combattendo questa battaglia. Mi preoccupo per le loro famiglie, e mi preoccupo per quelle famiglie che non potranno condividere un’altra estate o un’altra partita di baseball con i loro cari che hanno perso. E giuro che farò tutto ciò che posso per assicurarmi che non siano morti invano, e che la verità venga ascoltata.

Note: http://www.peacereporter.net/it/canali/storie/0000america/statiuniti/040515rieckhoff

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