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In dieci anni almeno 300mila morti e milioni di sfollati. Faticoso il processo di riconciliazione nazionale

Burundi, la pace appesa a un filo

29 aprile 2004
Fabio Rosati
Fonte: Liberazione - 29 aprile 2004

Una storia segnata da conflitti drammatici, spaccature e tanti morti. Le vicende del Burundi ricalcano molto da vicino quelle di molti altri Stati africani, indipendenti formalmente, ma di fatto tuttora sotto il giogo delle potenze coloniali. Il Burundi ne ha viste di tutti i colori e ha dovuto attendere il 1962 per liberarsi della madrepatria belga. Per la martoriata Africa sono gli anni della nascita dei movimenti indipendentisti. Nel 1960, in Burundi si contano 23 partiti politici. La maggior parte dei quali organizzati dalla componente tutsi, che la Chiesa cattolica aveva istruito e convertito, discriminando l'etnia hutu ed alimentando in questo modo un futuro sanguinario. In ritardo, la Chiesa si accorge dell'errore e cerca di porvi rimedio favorendo gli hutu in chiave antitutsi. Ma ormai il danno è fatto e oggi se ne contano ancora le tragiche conseguenze. Nel 1959 si assiste nella vicina Ruanda al primo massacro di tutsi da parte degli hutu. Alla fine dello stesso anno, il Burundi diventa una monarchia costituzionale con un re tutsi. Nel 1962 una risoluzione Onu "impone" l'indipendenza. Ma gli odii tra tutsi e hutu restano tutti, la lotta per il potere si trasforma in scontro senza esclusione di colpi e si assiste ad uccisioni a catena. A fine anni Sessanta, i morti si contano in migliaia. La popolazione è composta da un 15% di tutsi, che però detengono le cariche politiche più importanti, e da un 85% di hutu. Le grandi stragi del 1972, del 1988 e del triennio 1991-1993 ripropongono lo stesso copione. Solo nel 1972, muoiono 150mila hutu.
Clamoroso nell'aprile 1993. Libere elezioni, e per di più senza brogli, determinano la vittoria del Frodebu, il Fronte democratico del Burundi, principale partito hutu. Melchior Ndadaye, il suo leader, diventa presidente. Il Paese scopre un clima di distensione. Ma è solo apparenza. Nell'autunno del 1993, l'esercito, a maggioranza tutsi, uccide Ndadaye. Il Burundi riprecipita nel baratro, gli scontri sono violentissimi. L'ultimo è un decennio di stragi, almeno 300mila vittime ed un milione di sfollati. Nell'agosto del 2000 si apre un piccolo spiraglio di pace con gli accordi di Arusha, città della Tanzania sede di un Tribunale penale internazionale. Grazie alla mediazione del presidente sudafricano Nelson Mandela, viene siglato il cessate il fuoco tra governo e forze ribelli. Due componenti hutu però non "si piegano": sono le Cndd-Fdd e le Fnl. Nel 2002, la volontà di deporre le armi viene ribadita sempre ad Arusha e le Cndd-Fdd ci stanno. Ma odii e razzie hanno la meglio.

Oggi le due principali formazioni ribelli hutu sono le Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia, con il proprio braccio armato, le Forze per la difesa della democrazia) di Pierre Nkurunziza e le Fnl (Forze di liberazione nazionale) di Agathon Rwasa, i principali antagonisti del governo di coalizione nazionale. Nell'estate del 2003 iniziano, infatti, dei colloqui tra il governo di unità nazionale, guidato dall'hutu moderato Domitien Ndayizeye e le Cndd-Fdd. Le lunghe trattative culminano con un accordo, definito storico, dell'8 ottobre 2003, nel quale vengono decisi i futuri assetti che dovranno avere governo, parlamento e forze armate, da sempre controllate da lobby tutsi. Si rivela fondamentale la mediazione del presidente sudafricano Thabo Mbeki. Alle trattative non partecipano le Fnl, avendo sempre rifiutato ogni ipotesi di dialogo con il governo, accusato di essere succube delle forze armate dominate dai tutsi. Soltanto nei giorni scorsi le Fnl hanno annunciato un cessate il fuoco unilaterale a condizione che l'esercito non attaccasse i ribelli. Ma le notizie giunte ieri parlano di 36 morti proprio tra i miliziani dell'Fnl. Ancora una volta la tregua sembra saltata. Il governo provvisorio burundese non ha ancora fissato la data delle elezioni che, in base agli accordi, non dovrebbero andare oltre l'autunno. Il presidente hutu Domitien Ndayizeye, partecipando alle manifestazioni per l'Africa a Roma nei giorni scorsi, si è dimostrato molto ottimista per uno sviluppo democratico nel Paese. Ma la pace resta appesa a un filo, con il carico di una guerra civile, scoppiata nel 1993, che ha provocato finora 300mila morti e milioni di sfollati.

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