Conflitti

Compromesso addio, i kurdi cominciano a vendere greggio per conto loro. A un'azienda di Dallas

Iraq, salta la legge sul petrolio

14 settembre 2007
Giuliana Sgrena
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Fallito il compromesso sulla legge per la privatizzazione del petrolio iracheno? L'ipotesi avanzata ieri dall'edizione online del New York Times rappresenta un nuovo colpo per Bush. Sul piano della sicurezza si può bluffare ma su quello del petrolio no, anche se non è detto che le compagnie americane non riusciranno a trarne vantaggio. L'ultimo affossamento della legge verrebbe infatti dal governo autonomo kurdo, l'alleato più solido degli Usa, che, impaziente di fare contratti per vendere gas e petrolio, in agosto ha varato una propria legge e da tempo ha stipulato contratti con varie compagnie straniere, l'ultimo la settimana scorsa con la Hunt oil company di Dallas (guarda caso). Lo sfruttamento del gas era invece stato affidato dal governo kurdo alla Dana gas, degli Emirati arabi. Il ministro del petrolio iracheno Hussein al Shahristani ha giudicato la legge kurda una sorta di dichiarazione di indipendenza del Kurdistan: «Indica una mancanza di cooperazione che fa dubitare sulla reale volontà di lavorare nel quadro della legge federale».
In effetti il governo kurdo, rivendicando il diritto di sfruttare il proprio petrolio, va contro il principio stabilito dalla costituzione che le risorse naturali sono di tutto il popolo iracheno e che devono essere sfruttate dal governo federale in collaborazione con quello locale. La costituzione tuttavia parla sempre di sfruttamento in corso e su questa ambiguità è facile giocare. Il governo kurdo infatti, oltre a rivendicare Kirkuk e i suoi ricchi campi petroliferi - ma per definire lo status della città dovrebbe tenersi un referendum rinviato al 2008 - ha scoperto altre riserve nel nord del paese e ha cominciato ad aprire nuovi pozzi. Da più di due anni, compagnie straniere si trovano nella regione autonoma del Kurdistan dove hanno fatto ricerche, scoperto pozzi e sembrano molto soddisfatte del risultato. Naturalmente per farlo hanno firmato contratti con il governo autonomo kurdo, fin dall'inizio dell'occupazione con l'avallo degli Stati uniti.
La prima compagnia straniera ad estrarre petrolio, all'inizio del 2006, è stata la norvegese Det Norske Oljeselskap (Dno), che incasserà dal 10 al 30 per cento dei profitti, il resto andrà al governo kurdo. Il pozzo di Tawke si trova vicino a Dohuk, quasi al confine con la Turchia, e si ritiene disponga di una riserva di 100 milioni di barili. A sfruttare i pozzi di Taq Taq, a sud di Sulaimaniya, è invece la svizzero-canadese Addax Petroleum in joint venture con la turca Genel Enerji. Le riserve dei pozzi di Taq Taq sono stimate in 1,2 miliardi di barili. Altre compagnie sono impegnate nella regione e si calcola che il Kurdistan possa produrre per la fine del prossimo anno 200mila barili al giorno, oltre 1 milione entro cinque anni. Se si pensa che attualmente la produzione totale dell'Iraq è di 1,9 milioni di barili, la quota del Kurdistan (esclusa la contestata Kirkuk) non è irrilevante, anche se non paragonabile a quella di Bassora (che produce il 60 per cento del petrolio iracheno). Il ministro delle risorse energetiche del Kurdistan Ashti Hawrami, secondo l'Institute for war and peace reporting (Iwpr), calcola le riserve del Kurdistan intorno ai 25 miliardi di barili, ai quali si devono aggiungere altri 20 miliardi di barili in zone contestate del nord (compresa la provincia di Ninive) e i 10 miliardi accertati di Kirkuk. Se questi dati fossero confermati, si tratterebbe di 55 miliardi di barili sui 115 del totale delle riserve irachene.
Il petrolio del Kurdistan, che ora in gran parte viene trasportato via terra con autobotti, dovrebbe essere trasferito con l'oleodotto che va da Kirkuk al Mediterraneo attraversando la Turchia. E Ankara teme il crescere di questa ricchezza, che potrebbe rafforzare la spinta alla creazione di uno stato kurdo.
Ma sono soprattutto gli iracheni a temere questa fuga in avanti dei kurdi, che di fronte all'altolà di Baghdad minacciano la secessione. I più preoccupati naturalmente sono i sunniti, che non dispongono di pozzi e quindi rischiano di rimanere senza risorse energetiche. Il braccio di ferro in corso aveva finora bloccato la bozza di legge presentata in febbraio in parlamento: contro oltre ai partiti sunniti anche il movimento sciita di Muqtada al Sadr, tutti favorevoli a una gestione federale del petrolio. Contro la privatizzazione soprattutto i sindacati del petrolio di Bassora, finché il premier al Maliki non ha messo fuori legge anche il sindacato. Contro una proposta di legge che rischia di dilapidare l'oro nero iracheno - con le concessioni a lungo termine e l'ingresso di consulenti stranieri nel consiglio che decide la strategia petrolifera, cosa che rivela il vero obiettivo dell'occupazione - si era espressa anche la maggior parte degli iracheni (oltre il 60%) in un sondaggio di agosto.
Il fallimento del compromesso potrebbe essere un fatto positivo, ma la dinamica in corso sembra portare più a una spartizione dell'Iraq che a un miglioramento della legge.

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