Conflitti

La Guantanamo afghana è italiana

L'Italia è il paese guida per la «giustizia» e le carceri in Afghanistan. E per «sgravare» gli Usa, nel nuovo penitenziario di Pol-i-Charkhi saranno trasferiti molti detenuti di Guantanamo e di Bagram. Che cosa succede nelle prigioni afghane?
30 marzo 2007
Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Il ministro della difesa afghano, Abdul Rahim Wardak, ha appena inaugurato il nuovo blocco di massima sicurezza del carcere di Pol-i-Charkhi, nei pressi di Kabul. «Non manderemo più nessuno a Guantanamo; - ha annunciato - d'ora in poi, chiunque sarà arrestato per terrorismo finirà a Pol-i-Charkhi». «Guantanamo è qui, dunque. - ha scritto Francesco Battistini, inviato del Corriere della Sera il 26 marzo - Appena fuori Kabul, direzione est. Un cassone di cemento armato, telecamere, microspie e sensori laser: 324 celle, 172 guardie addestrate dalle forze speciali Usa, filo spinato e mura insormontabili».
Alla realizzazione della Guantanamo afghana ha contribuito in modo decisivo l'Italia. Nella ripartizione dei compiti per garantire la «sicurezza interna» dell'Afghanistan sono stati infatti individuati cinque «pilastri prioritari» _ nell'illustrazione della cooperazione italiana è un tempio greco con le colonne portanti specifiche per ognun paese -, la cui costruzione è stata posta sotto la leadership di altrettante «nazioni guida»: l'esercito è stato affidato agli Usa, la polizia alla Germania, l'anti-narcotici alla Gran Bretagna, il disarmo delle milizie parallele al Giappone, la giustizia all'Italia. E' stato a tal fine costituito nel 2003, sotto il governo Berlusconi, «l'Ufficio italiano giustizia» che, diretto dall'ambasciatore Jolanda Brunetti Goetz, si occupa del «ripristino di un'efficace amministrazione giudiziaria» in Afghanistan. In tale quadro rientra la «costruzione o riabilitazione di infrastrutture: tribunali, uffici, prigioni». Dopo una iniziale concentrazione delle attività nella capitale, Kabul, «l'attenzione dei progetti italiani va ora gradualmente espandendosi alle province ed ai distretti». Rientra in tale quadro la costruzione di altre carceri. Ufficialmente per migliorare le condizioni di vita dei detenuti.
Tale impegno è stato confermato, con esemplare spirito bipartisan, dal governo Prodi. Lo scorso 6 febbraio, alla commissione III della Camera, il sottosegretario per gli affari esteri Gianni Vernetti, dopo aver assicurato che il governo cerca di potenziare e migliorare il «programma giustizia» con il coordinamento della nostra ambasciata a Kabul, ha sottolineato: «Abbiamo fornito un contributo concreto non soltanto in termini di uffici del ministero, ma anche di tribunali, procure e carceri; a questo si aggiunga la formazione di 2.000 operatori della giustizia: giudici, procuratori, avvocati, operatori penitenziari».
Resta da vedere quanto questi «operatori di giustizia» operino per la giustizia. E quale sistema di giustizia possa essere costruito da chi, dopo aver occupato il paese, gli detta le norme di diritto che esso deve seguire, compresi «il nuovo codice di procedura penale, il codice minorile, le iniziative per la qualità della vita nel sistema penitenziario del paese».
Una cosa però è certa: la costruzione di nuove carceri, finanziata dall'Italia, serve. Soprattutto agli Stati uniti. Come ha confermato sei mesi fa il segretario generale delle Nazioni unite l'11 settembre 2006, nel centro di detenzione di massima sicurezza di Pol-i-Charkhi dovrebbero essere trasferiti gli afghani detenuti a Guantanamo (Cuba), il cui numero è stimato in circa 70, e parte di quelli detenuti nella base aerea di Bagram in Afghanistan, il cui numero è stimato in circa 800.
Formalmente quindi essi passeranno, con il beneplacito dell'Onu, «dalla custodia militare degli Stati uniti a quella delle autorità afghane». Come sottolinea Battistini, «la nuova Guantanamo afghana servirà per l' opinione pubblica mondiale: se ci sarà qualche abuso, ora la colpa sarà di Kabul». Di fronte all'indignazione suscitata nel mondo dalle torture praticate dai militari statunitensi ai prigionieri di Guantanamo, Bagram, Abu Ghraib e altri centri di detenzione, Washington cerca, nei casi in cui è possibile, di consegnare formalmente i prigionieri alle «autorità» nazionali. Così, quando verranno alla luce altre prove di torture, saranno queste a risponderne. Allo stesso tempo i prigionieri continueranno ad essere in mani statunitensi: lo conferma il fatto che le guardie afghane del centro di detenzione di massima sicurezza di Pol-i-Charkhi sono state scelte e addestrate da forze speciali Usa, esperte in tecniche di tortura.
Ai prigionieri trasferiti da Guantanamo, Bagram e altri centri di detenzione statunitensi, si aggiungeranno quelli che saranno catturati nell'operazione Achille della Nato/Isaf e in altre future operazioni militari. C'è quindi bisogno di nuove carceri, dove imprigionare e interrogare chiunque, talebano o no, resista all'occupazione o debba comunque essere interrogato sotto tortura per estorcergli informazioni o fargli confessare crimini non commessi.
A Pol-i-Charkhi, riferisce sempre Francesco Battistini, potrebbe essere finito anche Rahmatullah Hanefi, il mediatore di Emergency arrestato dai servizi afghani dopo la liberazione del giornalista Mastrogiacomo e che, come riporta Teresa Strada, è già stato torturato con scosse elettriche e anche, secondo la testimonianza di un agente ferito in un attentato raccolta dall'inviato di PeaceReporter Enrico Piovesana «pestato ben bene». Tutto questo sotto la copertura del «programma giustizia», finanziato e realizzato dal governo italiano per «rispondere adeguatamente alla diffusa domanda di giustizia in Afghanistan nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani».

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