Conflitti

Kosovo, buco nero della grandeur europea

La provincia formalmente serba verso una indipendenza monoetnica albanese. Tra i disastri della guerra Nato e la voragine degli aiuti occidentali spariti grazie all'Unmik
21 gennaio 2007
Tommaso Di Francesco
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Che cosa racconta il dimenticato Kosovo, piccolo lembo dei Balcani, grande abisso d'Europa? Che torna d'attualità per la decisione finale sullo status e le elezioni serbe di oggi su questo centrate come fossero un referendum. E per la divisione della comunità internazionale sul riconoscimento dell'indipendenza, dentro Gruppo di contatto, Unione europea (con Grecia, Spagna e Romania contrarie) e Consiglio di sicurezza dell'Onu (con Russia e Cina pronte al veto).
Un racconto di macerie
Che cosa raccontano i campi profughi nel sud della Serbia, le macerie firmate «Uck» dei monasteri ortodossi rasi al suolo, i bantustan assediati di Obilic e Orahovac, le famiglie rom della periferia divisa di Mitrovica, i profughi serbi nei container di Gracanica, le ombre di Gorazdevac e i tanti inventati «cimiteri d'eroi» dell'Uck edificati perfino in zone dove non si è mai combattuto - ricorda il generale Fabio Mini sul quaderno speciale di LiMes «Kosovo, lo stato delle mafie»? Narrano del fallimento della guerra «umanitaria» targata Nato del 1999, giustificata allora per «proteggere i profughi in fuga dalla pulizia etnica di Milosevic». In un inedito comportamento della comunità internazionale sorda e cieca di fronte ai tanti, troppi profughi palestinesi e kurdi di Turchia. Slobodan Milosevic, il leader serbo che decise per la sua ascesa di cavalcare il nazionalismo e contribuire così in modo criminale a devastare il fragile equilibrio della ex Jugoslavia, non c'è più, è morto nella prigione dell'Aja. Ma quel Tribunale che si definiva imparziale verso tutti «i crimini di guerra», oltre a non processare gli altri Signori della guerra (Tudjman e Izetbegovic), si è rifiutato - suscitando le critiche anche del primo presidente della corte, Antonio Cassese - di istruire un procedimento contro i crimini della Nato, i suoi bombardamenti indiscriminati che hanno provocato tante vittime civili, definiti dai portavoce atlantici «effetti collaterali», e bollati invece da Amnesty International come «omicidi deliberati». Quella guerra venne voluta a tutti i costi dagli Stati uniti contro il parere dell'Onu - un anticipo della guerra all'Iraq -, venne subìta dai governi europei che però l'accettarono e la fecero propria come alleati atlantici. Fu la guerra con la quale gli Usa ripresero in mano i destini dell'Alleanza guidando poi il pericoloso allargamento a est, foriero tuttora di avventure di guerra.
Era possibile un'altra scelta? Sì, fortissimamente sì. Alla luce della verità livida emersa subito dopo. Scrive in un bel libro («Gli stregoni della notizia», ed. Guerini e associati) Marcello Foa che bastarono 15 righe dell'agenzia Reuters e 10 dell'Ansa a raccontare un avvenimento sconvolgente: il 6 settembre del 2001 la Corte suprema di Pristina, sotto l'egida dell'Onu, ha sancito che i miliziani serbi di Milosevic furono sì responsabili di violenze contro la popolazione albanese, ma non di un genocidio e inoltre, che la Corte ha le prove che il drammatico esodo di 890 mila persone - tutte rientrate dopo un mese - dal Kosovo non fu provocato dai miliziani serbi, come ci venne detto in quei giorni, «ma dalla paura di essere colpiti dalle bombe Usa», come purtroppo avvenne durante gli intensi raid dell'aviazione Nato. E pensare che già alla fine del 1998 e all'inizio del 1999 i giornali americani, e non solo, influenzati dagli spin doctors di Washington parlavano di «500 mila in fuga dai massacri». E invece in Kosovo c'era una missione dell'Osce che mediava dalla fine del 1998 tra albanesi, quelli moderati di Ibrahim Rugova, e il governo di Belgrado, c'era l'Onu che denunciava ancora a gennaio 1999 che c'erano «50 mila sfollati», sia albanesi che serbi e rom. Poi la provocazione della strage di Racak, inventata e artificiale secondo i medici legali e la stessa Onu, ma utile perché il capo americano della missione, William Walker, potesse deciderne il ritiro; poi l'imbroglio dei diktat di Rambouillet. Infine il 24 marzo 1999 i raid «umanitari» della Nato.
A cosa ha portato quella guerra? In questi sette anni di Amministrazione Unmik e protettorato Nato, per ammissione del Consiglio di sicurezza Onu già nel dicembre 1999, abbiamo assistito a una contropulizia etnica a danno delle minoranze serbe, rom, ebrei, goranj; sono fuggiti nel terrore 200 mila serbi e altrettanti rom, tutta la comunità ebraica di Pristina, sono state uccise quasi duemila persone (serbi, rom e anche albanesi considerati moderati) e altrettante sono dasaparecidos, sono stati distrutti 150 monasteri e chiese ortodosse, in una esplicita operazione di sradicamento culturale e violenta «riscrittura» della storia. Lì poi, in aperto dispregio del diritto internazionale, gli Stati uniti hanno edificato Camp Bondsteel presso Urosevac, la più grande e più misteriosa base militare d'Europa, che ora il Consiglio d'Europa accusa di essere «una Guantanamo nei Balcani».
Il risultato della guerra «umanitaria»
Con una novità in più raccontata da Gian Pietro Caliari nel saggio «Re Onu è nudo» sempre su LiMes: il Kosovo è la voragine del fallimento delle Nazioni unite, anche dal punto di vista materiale di organizzazione dei cosiddetti aiuti: in sette anni sono arrivati ufficialmente attraverso l'Onu e la Ue tra i 10 e i 15 miliardi di euro, ma la stima dei costi delle iniziative realizzate «non supera gli 800 milioni di euro», con una realtà di 300 Ong e una pletora di «burocrazie internazionali» parassitarie, per un ricchissimo «mercato umanitario» rappresentato dal miracolato Kosovo. E dove l'unico livello reale di internazionalizzazione è quello delle mafie. Dunque, standard per una indipendenza (rispetto delle minoranze, diritti umani, democrazia e garanzie di sicurezza) non esistono, ha scritto nel rapporto del 2006 Amnesty International.
Nonostante ciò la comunità internazionale persegue l'obiettivo dell'indipendenza promesso agli ex «terroristi» dell'Uck, ora al governo a Pristina dal 2004 dopo elezioni monoetniche, alle quali ha partecipato solo il 50% della popolazione. Li chiamava così l'allora ministro degli esteri italiano Lamberto Dini in parlamento a febbraio 1999, quando li accusava di voler far saltare la tregua con i loro attacchi. Sarà una indipendenza «dopo 18 mesi di transizione», secondo la proposta che l'inviato speciale Martti Athisaari («mediatore» da sempre favorevole all'indipendenza albanese) presenterà a Vienna a febbraio dopo il vertice Ue del 26 gennaio. Un'indipendenza etnica che di fatto l'Amministrazione Unmik ha avviato in questi sette anni trasferendo illegalmente fette di potere ai soli albanesi. Rivelando dunque che la guerra «umanitaria» non aveva per scopo la propagandata difesa dei profughi, ma l'avvio di una secessione e la rimessa in discussione di confini internazionali. Davvero un bel precedente.
La Nato teme la «tempesta»
E nonostante che la pace di Kumanovo del giugno 1999, che aveva posto fine alla guerra con il ritiro consensuale delle truppe di Belgrado, e la risoluzione 1244 votata dal Consiglio di sicurezza Onu, abbiano dichiarato che il Kosovo restava «provincia della Serbia» e che, dopo un periodo di sei anni, sarebbe dovuta tornare sotto il controllo del governo di Belgrado. Ora da Pristina premono, minacciano rivolte e nuovi pogrom, fanno attentati contro l'Onu. E i governi europei hanno preso tempo, tardivamente preoccupati che una proclamazione d'indipendenza albanese del Kosovo avrebbe favorito la vittoria dell'ultranazionalismo serbo alle elezioni politiche di oggi, 21 gennaio 2007, a Belgrado. Ma non è questione di «ultranazionalisti», se la nuova costituzione della Serbia votata a ottobre 2006 quasi all'unanimità dal parlamento e ratificata da un referendum, recita che il Kosovo «è territorio irrinunciabile della Serbia», e se quella terra, oltre che culla della storia serba, si chiama anche Metohja (terra della chiesa) ed è la culla della Chiesa ortodossa.
Ora da Pristina annunciano una «commissione parlamentare per la nuova costituzione», pronti comunque a una unilaterale proclamazione d'indipendenza che farebbe subito fuggire le decine di migliaia di serbi rimasti nelle enclave protette dai contingenti Nato, ormai a fatica come hanno dimostrato i pogrom del marzo 2004. Un'altra indipendenza, un'altra statualità proclamata su base etnica - e sotto ricatto di violenze - come tutte quelle che a partire dal 1991 con la Slovenia e Croazia, vennero subito riconosciute dall'Occidente, insanguinando i Balcani disseminati di etnie pronte a proclamazioni statuali contrapposte. Continuando a non interrogarsi su che effetto avrà in primis sui Balcani, alle prese con il disastro della Bosnia Erzegovina ancora divisa e con la fragilità della Macedonia appesa alle decisioni della forte minoranza albanese. E che effetto avrà, manda a dire Vladimir Putin, nel Caucaso dove verrà strumentalizzata come «pericoloso precedente» per le tante secessioni filorusse, in Ossetia del sud, Abkhazia, Transdnjstria. Kosovo? «La calma prima della tempesta» - rivolta albanese o mobilitazione del'esercito serbo verso il Kosovo - dice l'Alleanza atlantica che allerta le truppe nella regione.

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