Conflitti

Il paradiso degli «aiuti fantasma»

Somme colossali versate a ditte Usa sotto forma di fondi di cooperazione per la ricostruzione del paese. Investimenti mostruosi nella sicurezza, corruzione e tangenti a volontà. Ecco come Washington ha promosso lo sviluppo nell'Afghanistan post-talebano
10 settembre 2006
Ann Jones (Giornalista e fotografa Usa, ha recentemente pubblicato il libro Kabul in Winter: life without peace in Afghanistan. Una versione più lunga di questo articolo si può trovare sul sito www.peacereporter.net. Traduzione di Maria G. Di Rienzo)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

La maggioranza degli afghani, dopo la dispersione dei talebani, era piena di speranza e desiderosa di mettersi al lavoro. I benefici tangibili della ricostruzione (impieghi, case, scuole, assistenza sanitaria) avrebbero potuto indurli a sostenere il governo e a trasformare una democrazia illusoria in qualcosa di più reale. Ma la ricostruzione non è avvenuta. Quando le forze Nato si sono mosse quest'estate nelle province del sud, per «mantenere la pace e continuare lo sviluppo», il generale David Richards, comandante britannico dell'operazione, sembra essere rimasto scioccato nello scoprire che nessuno sviluppo, o ben poco, era cominciato. Di questo fallimento, i primi responsabili sono gli Usa. Fino a questo anno, la coalizione guidata dagli americani ha assunto per sé sola il compito di ristabilire condizioni di sicurezza fuori Kabul, ma non vi ha impiegato sul terreno un solo uomo.
Dove sono finiti i soldi?
Una recente testimonianza dell'Ispettore generale per la ricostruzione dell'Iraq ha rivelato come l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) manipoli i propri conti per nascondere i mastodontici costi che i problemi di sicurezza aggiungono ai progetti d'aiuto (si arriva a maggiorazioni del 418 %). È ragionevole pensare che se ascoltassimo l'Ispettore responsabile per l'Afghanistan ci racconterebbe le medesime storie: le ditte sotto contratto per l'Usaid sono le stesse. Senza pace non può esserci sicurezza, e senza sicurezza non c'è ricostruzione. Ma c'è di più. Per capire il fallimento, e la frode, di tali progetti di ricostruzione, bisogna dare un'occhiata al sistema con cui gli Usa forniscono aiuto per lo sviluppo a livello internazionale. Negli ultimi cinque anni gli Usa e molti altri donatori hanno mandato miliardi di dollari in Afghanistan, eppure gli afghani continuano a chiedere: «dove sono finiti i soldi?»
Chi paga le tasse negli Stati uniti dovrebbe fare la stessa domanda. La risposta ufficiale è che i fondi inviati dai donatori si perdono nella corruzione afghana. Ma gli afgani equivoci, abituati alle bustarelle da due soldi, stanno imparando come la corruzione ad alto livello funzioni benissimo per i padroni del mondo.
Un rapporto del giugno 2005, molto circostanziato, di Action Aid (Ong con sede centrale a Johannesburg in Sudafrica, assai rispettata) ci aiuta a far chiarezza su come funzioni questo mondo. Il rapporto ha studiato gli aiuti allo sviluppo forniti da tutti i paesi sul globo ed ha scoperto che solo una piccola parte di essi (forse tocca il 40 %) è concreta.
Il resto è «aiuto fantasma», il che significa che i soldi non arriveranno mai ai paesi a cui sono destinati. Parte di questi soldi non esistono proprio, se non come voce in bilancio, come quando i paesi contabilizzano la cancellazione del debito o i costi di costruzione di una bella nuova ambasciata nella colonna degli aiuti. Molti di questi soldi non lasceranno mai la propria casa: i mandati di pagamento per gli «esperti» statunitensi sotto contratto dall'Usaid, per esempio, vanno direttamente dall'agenzia alle banche Usa, senza mai passare per i «paesi che devono essere ricostruiti». Molto altro denaro, conclude il rapporto, è buttato via in «assistenza tecnica superpagata e inefficace» . E un'altra bella fetta di soldi è legata alla nazione donatrice, il che vuol dire che chi la riceve è obbligato ad usare il denaro per comprare prodotti del paese donatore: soprattutto quando le stesse merci potrebbe trovarle a prezzo assai più basso in casa propria.
Gli Usa sono ai più alti livelli nella classifica dei «donatori fantasma», solo la Francia a volte li supera. Il 47% dell'aiuto Usa allo sviluppo va alla «superpagata assistenza tecnica»; solo il 4 % dell'aiuto svedese lo fa, e il 2 % dell'aiuto lussemburghese o irlandese. E per quanto riguarda il dover acquistare prodotti del paese donatore, né la Svezia, né la Norvegia, né l'Irlanda o il Regno unito adottano questa pratica. Il 70 % del denaro statunitense legato agli aiuti ha questa clausola, di doverci comperare roba made in Usa, soprattutto sistemi d'arma. Considerate queste pratiche, Action Aid calcola che 86 centesimi ogni dollaro siano «aiuto fantasma».
I buoni propositi di Laura Bush
Il presidente Bush si vanta di aver mandato miliardi di dollari in Afghanistan, ma in effetti avremmo ottenuto un miglior risultato passando in giro un cappello. L'amministrazione Usa spesso deliberatamente rappresenta in modo falso il suo programma di aiuti ad uso delle popolazioni. Lo scorso anno, per esempio, mentre Bush mandava sua moglie a Kabul per poche ore, il tempo di qualche fotografia, il New York Timesriportava che la missione di costei era «la promessa di un impegno a lungo termine per l'istruzione di donne e bambini». Nel suo discorso di Kabul, la signora Bush disse che gli Usa avrebbero fornito 17,7 milioni di dollari in più per sostenere l'istruzione in Afghanistan.
Quello che è accaduto è che il fondo in questione è stato usato per costruire un'università privata, l'Università americana dell'Afghanistan, diretta alle élite afghane e statunitensi, e a cui si accede a pagamento: il fatto che un'università privata venga finanziata dai soldi delle tasse pubbliche e costruita dal corpo dei genieri dell'esercito Usa è un'altra delle peculiarità degli aiuti in stile Bush.
Tipicamente, gli Usa preferiscono canalizzare il danaro degli aiuti umanitari verso appaltatori statunitensi. L'assistenza umanitaria Usa è sempre più privatizzata, ed è ormai solo un meccanismo per trasferire i dollari delle tasse ai forzieri di ditte americane selezionate, ed alle tasche di chi i soldi li ha già. Nel 2001 Andrew Natsios, l'allora direttore di Usaid, citò i fondi per l'assistenza all'estero come «uno strumento politico chiave», disegnato per aiutare gli altri paesi a «diventare migliori mercati per l'esportazione statunitense». Per garantire che tale missione vada a buon fine, il Dipartimento di Stato ha di recente assunto la direzione di quelle che prima, almeno formalmente, erano agenzie umanitarie semi-autonome.
E poiché lo scopo dell'aiuto americano è quello di rendere il mondo sicuro per gli affari americani, Usaid si serve di una lista di ditte «favorite» (che può leggermente mutare a seconda dei risultati elettorali) a cui chiede di sottoporre progetti, e talvolta interpella un solo appaltatore, la stessa efficiente procedura che ha reso l'Halliburton così fortunata in Iraq.
Le ditte preselezionate stipulano un contratto con l'Usaid, detto Iqc (ovvero «per quantità indefinite»). Le ditte presentano informazioni vaghe su cosa potrebbero fare in aree non meglio specificate, riservandosi le definizioni per un successivo contratto. La ditta di volta in volta scelta verrà invitata a materializzare le sue speculazioni tramite il formato Rfp (ovvero «richiesta di proposte»), e poi inviata in un paese straniero a cercare di rendere reale qualsiasi tipo di lavoro sognato da teorici di Washington, assolutamente non oberati dalla conoscenza di prima mano dello sfortunato paese in questione.
L'autostrada a pedaggio
I criteri con cui si scelgono gli appaltatori ha poco o niente a che fare con le condizioni del paese che li riceve, e non sono esattamente ciò che chiamereste campioni di trasparenza. Prendete il caso della strada Kabul-Kandahar, che il sito dell'Usaid propaganda con orgoglio come un successo. In cinque anni è la sola strada che sia mai stata finita, il che supera almeno di un punto il record dell'amministrazione Bush nella costruzione di sistemi idrici o fognari (nessuno).
Nel marzo 2005, la superstrada in questione apparve sul giornale Kabul Weekly sotto il titolo: «Milioni buttati via per strade di seconda mano». Il giornalista afghano Mirwais Harooni raccontò che sebbene ditte internazionali si fossero offerte per ricostruire la strada al prezzo di 250 dollari al chilometro, gli statunitensi del Louis Berger Group avevano ottenuto il lavoro al prezzo di 700 dollari al chilometro (ce ne sono 389). Perché? La risposta standard americana è che gli americani lavorano meglio, sebbene non sia il caso della ditta Berger che all'epoca era già in ritardo su un altro contratto di 665 milioni di dollari per costruire scuole in Afghanistan. La Berger subappaltò la costruzione della stretta strada a due corsie, priva di guard-rail, a ditte turche ed indiane, al costo finale di un milione di dollari a miglio: e chiunque ci viaggi oggi può constatare che sta già cadendo a pezzi.
L'ex ministro della pianificazione Ramazan Bashardost fece notare che in materia di strade i talebani avevano fatto un miglior lavoro, ed anche lui pose la fatidica domanda: «Dove sono finiti i soldi?». Oggi, con una mossa che certamente farà crollare gli indici di gradimento di Karzai, e danneggerà ulteriormente le truppe Usa e Nato, l'amministrazione Bush sta facendo pressione sul governo afgano affinché questo «dono del popolo degli Stati uniti» (così venne definita la strada) sia trasformato in una strada a pagamento: 20 dollari a guidatore per un permesso di transito valido un mese. In questo modo, dicono gli esperti americani fornitori di superpagata assistenza tecnica, l'Afghanistan potrebbe avere un introito annuo di 30 milioni di dollari dai suoi cittadini immiseriti e alleggerire finalmente il "peso" dell'aiuto che grava sugli Usa.

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